In un crescendo di interventi si sente montare l’onda della polemica antieuropeista sensibile alle febbri elettorali che serpeggiano come i virus d’inverno e smossa da una generale scontentezza. Gli eurofobi di oggi spesso fanno parte degli stessi laudatores che sostennero un’adozione della moneta unica frettolosa e avventata, mentre fra i pochi e timidi sostenitori parecchi l’avevano con forza avversata agli inizi. Non resta che cercare di capire con la necessaria serenità quanta parte dell’attuale malcontento sia colpa dell’euro e quanta, invece, dipenda da altre cause che anche nel mondo agricolo alcuni gli addebitano.
A tutti occorre ricordare che l’appartenenza all’Unione europea e l’euro sono due cose distinte, anche se fortemente intrecciate. Quando, nel 1957, nacque quell’insieme di Istituzioni che oggi forma l’Ue, di moneta unica non v’era traccia. Si era creata una zona di libero scambio molto ambiziosa comprendente l’agricoltura che per qualche decennio ne costituì la principale realizzazione. Al tempo, con l’Europa distrutta dalla guerra, l’obiettivo era la pace fra i contendenti, partendo dalla liberalizzazione degli scambi. L’ambizione risiedeva nel fatto che questa unione commerciale, a differenza di tutte le altre, si proponeva di arrivare all’integrazione politica degli antichi nemici per evitare tragiche repliche.
Per questa ambizione l’Ue, sull’onda dei suoi successi ha dato vita all’euro. Ad esso aderiscono 19 dei 28 paesi componenti, fra cui tutti i fondatori della Cee e gli Stati economicamente più rilevanti con l’esclusione della Gran Bretagna.
Molte delle accuse vengono rivolte “all’Europa”, rea di non intervenire su qualche argomento, di usare male determinati fondi o di “imporre” regole e comportamenti oggi rifiutati, ma in vigore spesso da decenni. Aggiungiamo: con l’approvazione del nostro paese che mai si oppose alla loro adozione. Per tutto ciò l’imputato più appropriato sarebbe l’Ue, non l’euro e nemmeno l’Europa. All’euro sono addebitati la perdita di potere d’acquisto della moneta, gli obblighi di sana tenuta dei conti pubblici, la perdita di sovranità monetaria, il tutto “imposto” da una presunta congiura, come se l’Italia ne fosse stata all’oscuro. Ecco perché le proteste andrebbero indirizzate non all’euro, ma semmai all’evanescente conduzione dell’economia dell’Italia.
Anche gli agricoltori, dimentichi dei benefici della Pac, si uniscono alla protesta e individuano la soluzione nell’uscita dall’euro o dall’Ue o, per non sbagliare, da entrambi per almeno quattro questioni: a) prezzi bassi, b) mercati non protetti dalle importazioni, c) costi in salita, d) un’infinità di vincoli e costi impropri.
Vediamo di capire. I prezzi agricoli dipendono dall’andamento mondiale delle materie prime e non solo di quelle agricole, dunque la colpa non è dell’euro o dell’Ue che anzi mantiene forme di salvaguardia per le crisi più gravi, come nel caso del latte. Il mercato europeo ha una sia pur ridotta protezione che sopravvive agli accordi internazionali perché la partita è giocata dall’Ue, l’Italia da sola otterrebbe molto meno. La salita dei costi dipende dal contesto italiano: sul mercato mondiale petrolio e derivati (quindi combustibili, fertilizzanti e antiparassitari) sono a livelli storicamente fra i più bassi che si ricordino, dunque la causa va cercata nel regime fiscale interno, nella poca trasparenza del mercato, nell’eterna questione del ridotto potere contrattuale dell’agricoltura, non nell’Ue e nell’euro. Anzi, quest’ultimo contribuisce a frenare i costi d’acquisto delle materie prime necessarie che altrimenti costerebbero di più. Infine, il ridotto potere contrattuale è un problema vecchio quanto l’agricoltura che non si risolve a Bruxelles. L’Europa, che è un’espressione geografica e storica, l’euro o l’Ue non possono intervenire su questi problemi, è lo Stato italiano con le sue politiche e le sue Istituzioni che dovrebbe farlo.
Su questi aspetti occorre tornare a ragionare con ponderazione.
*Dario Casati, Presidente della Sezione Nord – Ovest dei Georgofili, è ordinario di Economia alla Facoltà di Agraria dell’Università di Milano.