Lasciata ormai alle spalle la “disamata Cuciniera”, Vincenzo Tanara ne L’economia del cittadino in villa (1644), focalizzava l’attenzione sul cuoco che nel suo pensiero rappresentava colui al quale sarebbe spettato realizzare le succulente ricette che l’autore elencava lungo il corso dell’intera opera e che riguardavano gli animali allevati nella villa, i vegetali coltivati nell’orto, i prodotti ottenuti sia dagli uni che dagli altri.
Il “porco” era il primo sul quale si appuntava l’attenzione dell’autore e di riflesso quella anche del ‘buon Economo’. Il porco, il brutto tra i brutti, dava una carne gustosa, forse la migliore di tutte, apprezzata fin dai palati più sopraffini.
Numerosissime le parole che Tanara spendeva sul porco ma contro eventuali critiche di partigianeria si autoassolveva dichiarando che un simile animale “buono a varie … cose per uso dell’huomo” meritava il suo“lungo discorso”
La scusa … mi difende del lungo discorso del Porco, per esser simbolo de’ Conviti, e per porge largo campo all’Economo con poca spesa in Villa di gouernare la famiglia
Dopo aver trattato di come uccidere il porco, Tanara elencava ben 110 ricette per cucinarne la carne in ogni sua parte, ad iniziare dal “lattante di quindici giorni” che risultava ottimo allo spiedo e al forno; cotto intero e riempito di prugne, mele, pere a fette, finocchio, agresto, funghi.
Una vera leccornia per il palato, affermava l’autore, così come altrettanto lo era la ricetta che seguiva e che preveda l’uso di una grossa anguilla come ripieno.
Cucinare il porco da più adulto metteva alla prova il bravo cuoco e sovente Tanara faceva riferimento agli Antichi per rintracciare ricette che lo rendessero tenero, saporito e gustoso.
Una fra le tante (relativa ad una animale dai 6 mesi ai 2 anni) riportava una ricetta assai particolare: dopo averlo lessato intero con moltissimo pepe, la carne era stata coperta con farina d’orzo impastata nel vino e così confezionato con aggiunta di brodo e olio, era posto in forno.
Per testa, grugno, orecchie, cervello, collo, coppa, lingua, fegato erano proposte ricette che prevedavano fritture, stufati, cotture alla brace e arrosti. Naturalmente non mancavano spezie ed altri condimenti e insaporitori: finocchio, pepe, succo d’arance e di “melangola”, zafferano.
Sullo spiedo finivano tranquillamente le costole e il petto prima polverizzato di sale, finocchio e pepe; per la spalla Tanara proponeva ricette più raffinate come ad esempio usata fresca in pasticcio alla francese.
Aceto, spicchi d’aglio, coriandoli, cumino e melagrane erano altri ingredienti per cucinare lonza, lombetto (piatto prediletto dei cacciatori) e pancetta.
Ma ciò che per il suo gusto e per la sua ecletticità faceva impazzire Tanara era il lardo, al quale egli dedicava numerose manipolazioni culinarie perché a suo dire esso dava “odore, sapore, e colore ad ogni vivanda”: da quello fresco che lasciava, una volta strutto, quei minutissimi pezzetti che “misticati” con pasta davano un’ “ottima pinza … chiamata Crescente”; tagliato in fette rendeva tenere braciole e arrosti; pestato e trito dava gusto a cavoli e rape; con esso si friggeva il pane e si facevano “crostini”.
Il prosciutto era “la meglio carne” del porco come di ogni altro animale; la più sana e saporita: arrosto, speziata, lardata, bollita in acqua e vino, sminuzzata e ricoperta di buon formaggio e cotta al forno dava un’ottima torta. Ma accanto alla parte nobile Tanara non dimenticava piedi, zampetti e sangue perché allora come ora era noto che del maiale non si butta via niente.
Mortadelle, salami, mezzi salami, salsicce e salcicciotti: altri prodotti che le mani esperte del bravo cuoco riuscivano a creare con parti scelte dell’animale e molti suoi avanzi, naturalmente il tutto condito con pepe, sale, aglio, noce moscata, cannella, zafferano, zucchero.
In fine la ricetta n. 110 proponeva un prodotto nel quale finivano tutti gli scarti (cuore, budella, orecchie, grugno, rognoni, carne grassa) che ben pestati e misticati con sale pepe e finocchio posti poi in budella e asciugati costituivano una possibile soluzione alla fame dei più “poueri”. “Indutoli” erano detti questi salsicciotti che se fatti con più diligenza e parti più pregiate erano assai gustosi bolliti nelle minestre d’erbe.