Carne coltivata e libertà del sistema agroalimentare italiano

di Giovanni Ballarini
  • 27 November 2024

Da quando la nostra specie da migratrice è divenuta stanziale ha sempre incontrato nuove possibilità alimentari e nuovi cibi costruendo nuove cucine e tradizioni in un continuo dialogo tra le eredità tradizionali e le mutevoli offerte e realtà del momento. Se osserviamo le più recenti cucine tradizionali italiane è facile costatare come siano una singolare e specifica interpretazione di nuovi alimenti arrivati dalle più lontane parti del globo e come il mais dei tacos americani è divenuto la polenta gialla italiana, la patata andina si è trasformata nel purè italiano e il pomodoro americano ha dato origine alle tradizionali pizze italiane e ai sughi per la pasta. La tradizione è tale se non è una tomba di riti ma se rimane viva e capace di modificarsi e adattarsi incorporando e interpretando quanto offerto dal caso e dalla necessità, secondo il principio enunciato dal greco Democrito di Abdera duemilacinquecento anni fa. La tradizione si mantiene viva evolvendo superando paure e preconcetti come quelli che solo alcuni secoli fa hanno ostacolato l’uso della melanzana accusandola di provocare la pazzia o della patata incolpata di essere demoniaca e portatrice di lebbra. Nuovi cibi e nuove paure di un passato non sembrano averci abbandonato nonostante che la conoscenza dei cibi e della nostra alimentazione da almeno un secolo sia oggetto di precise ricerche scientifiche che danno concretezza alle caratteristiche nutrizionali e di sicurezza degli alimenti, con attenzione al benessere e alla salute, quindi con conoscenze che nel passato mancavano per gli alimenti esotici che sono divenuti tradizionali nelle nostre cucine. Per questo oggi abbiamo la possibilità, anzi il dovere se non la necessità di considerare i nuovi alimenti (Novel Food) che possono arrivare sulle nostre tavole con criteri scientifici, evitando atteggiamenti preconcetti, ideologici, integralisti e comunque irrazionali. Per questo nella Unione Europea dal 1° gennaio 2018 vi è il Regolamento (UE) 2015/2283 sui nuovi alimenti, abrogando il precedente Regolamento (CE) 258/97, e nel quale si intendono per Novel Food tutti quei prodotti e sostanze alimentari privi di storia di consumo significativo al 15 maggio 1997 in UE, e che, quindi, devono sottostare ad un'autorizzazione, per valutarne la loro sicurezza, prima della loro immissione in commercio.
L’Italia vive in un contesto europeo nel quale vige il libero commercio degli alimenti e gli abitanti di ogni stato membro, regione e singolo paese possono usarli secondo la propria tradizione, gusto, estro e anche usare per fare delle innovazioni. Per questo pare strano se non sconvolgente la scelta del governo italiano sulla proibizione della carne coltivata (per altro non ancora esaminata e quindi autorizzata come Novel Food dalla Unione Europea) scrivere un provvedimento che in Italia “è vietata la carne coltivata al fine di tutelare non solo la salute umana ma anche il patrimonio agroalimentare nazionale”. Un provvedimento che mette un veto alla ricerca, si scontra con le eventuali prossime direttive comunitarie e soprattutto va conto l’evoluzione della alimentazione e delle sue tradizioni, meritandosi alcune considerazioni di carattere generale, partendo dalla tema di fondo se anche per gli alimenti esiste la questione del proibizionismo e della libertà alimentare.
Il proibizionismo alimentare consiste nel voler impedire agli altri di mangiare quello che chi comanda o che un gruppo più o meno grande di persone non ritiene giusto mangiare, andando contro alla libertà alimentare, aspetto essenziale della libertà tout court e in Italia tutelata dalla Costituzione nell'ambito dell'articolo 21 come libertà di espressione, perché mangiare un piatto tradizionale o innovativo non è solo ingerire calorie, proteine e quant’altro, ma anche esprimere una propria visione del mondo. Come per il tabacco le confezioni indicano il pericolo e il rischio di patologie e ogni consumatore è libero di fumare, in modo analogo per gli alimenti semplici riconosciuti come tali e soprattutto per quelli processati fino ai piatti pronti è giusto indicarne le caratteristiche e ogni consumatore deve essere libero di farne l’uso che ritiene opportuno. Informare e mettere in attenzione e anche in allarme non è proibizionismo, ma doverosa informazione, soprattutto oggi in una società urbanizzata che ha sempre meno conoscenze dirette sulla lunga e complessa linea di produzione, trasformazione, preparazione, distribuzione alimentare.
Perché vietare la carne coltivata al fine di tutelare il patrimonio agroalimentare nazionale? Quest’ultimo non è una raccolta di più o meno antiche specie vegetali e animali o ricette di cucina, ma un corpo vivo con una cultura in continuo dialogo con altre culture agroalimentari. A questo riguardo basta osservare la storia di come nel corso di questi ultimi cento anni i prodotti agroalimentari considerati tipici italiani si sono modificati accogliendo elementi da altre culture e incorporandole per dare ai consumatori un prodotto adeguato ai tempi. Anche per la tipicità vale il principio darwiniano che solo chi si adegua sopravvive e non scompare. Inoltre l’introduzione in Italia di alimenti “industriali” come le bevande sintetiche a base di cola e quelle gassate non solo ha eliminato il vino bevanda tradizionale ancestrale, ma lo ha costretto a migliorare. In modo analogo una eventuale introduzione in Italia di carni “sintetiche” o coltivate obbligherà a migliorare le carni italiane tradizionali, per altro oggi largamente insufficienti a coprire la richiesta del mercato. Come è già avvenuto per gli hamburger, inizialmente disprezzati ma divenuti oggetto di miglioramento e di presentazione gastronomiche da parte di chef anche celebrati, lo stesso avverrebbe per la carne coltivata usata per creare nuovi sughi e preparazioni da parte di anche celebrati chef. Come è avvenuto con i vini, la carne coltivata stimolerebbe la produzione e l’uso di carni tipiche italiane e certamente la Bistecca alla Fiorentina di Chianina non avrebbe nulla da temere, anzi si avvantaggerebbe della presenza sul mercato di una carne “sintetica”. Il tutto come da sempre è avvenuto, in una normale e inevitabile evoluzione del patrimonio agroalimentare italiano.