Dopo decenni di disinteresse, dopo uno sviluppo antropico dissennato, dopo l’abbandono dell’agricoltura in montagna sembra che nel nostro paese si sia risvegliato l’interesse a tutto quello che riguarda la messa in sicurezza del territorio dalle alluvioni.
Tutto questo avviene nel periodo nel quale la natura sta presentando il conto al nostro aver sfruttato troppo il pianeta. E lo fa attraverso quelli che sono definiti genericamente cambiamenti climatici.
Nel nostro paese, negli ultimi anni Toscana ed Emilia Romagna sono state interessate da disastrose alluvioni causate da una enorme quantità d’acqua (mai registrata a memoria d’uomo) che ha impattato soprattutto il reticolo minore devastandolo e spingendo montagne d’acqua dalla montagna alla pianura.
La fragilità del territorio montano si è rivelata con il grande numero di frane che hanno seguito ogni precipitazione intensa, mentre quella del territorio pianeggiante si è palesata con il crollo degli argini, il loro sormonto e l’incapacità degli alvei di trattenere le piene.
Cosa dobbiamo fare?
Condivido l’opinione del Professor Casagli e di tanti insigni studiosi che si debba adattarsi ai cambiamenti climatici e questo fanno da anni i Consorzi di bonifica facendo una puntuale e precisa opera di manutenzione e prevenzione. Ma questo non basta. Occorre pianificare gli investimenti per mitigare i rischi sui territori, occorrono subito tante risorse da mettere a terra per realizzare le opere necessarie.
Ma di ciò non vi è traccia nelle politiche nazionali.
Occorre invasare acqua d’inverno per combattere le piene e la siccità allo stesso tempo.
Occorre un approccio scientifico e metodologico nell’individuare le priorità sia a livello nazionale che a livello regionale e dare loro seguito con costanza e risorse certe.
Occorre un’agricoltura che, soprattutto in montagna, torni ad essere regimatrice delle acque e aiuti nella manutenzione del reticolo idraulico.
Occorre, infine, una opinione pubblica più informata e formata su questi temi che prenda atto spesso di essere stata causa del suo male relegando i fiumi a poveri canali tombati o incassati malamente nel cuore delle città e che non si preoccupi dei fiumi solo sull’onda emotiva delle alluvioni ma ne faccia un tema costante di sollecitazione alla politica regionale e nazionale.
Se, invece, come accade adesso, si grida allarme per un mancato sfalcio dell’erba senza preoccuparsi delle risorse necessarie per mettere in sicurezza l’argine sul quale quell’erba cresce saremo sempre più vittime dei fenomeni estremi e non riusciremo a controllarli adeguatamente.
(Marco Bottino)
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Ancora una volta, l’ennesima purtroppo, ci troviamo a fare i conti con gli ingenti danni in seguito a violenti eventi piovosi con conseguenti catastrofiche alluvioni con perdite anche di vite umane. Si continua a parlare di piogge record e di eventi eccezionali, quando ormai la crisi climatica in atto ci ha dimostrato che questi eventi stanno diventando la regola e non l’eccezione. Questi ultimi hanno colpito ancora una volta l’Emilia-Romagna, già martoriata nel maggio del 2023, e la Toscana, particolarmente lungo la costa livornese e la val di Cecina.
Sono circolate sui social molte foto in cui si evidenziava come grandi masse di detriti legnosi trasportati dalla furia delle acque hanno poi ostruito il deflusso delle stesse. Questo non dimostra certo che la crisi climatica non esiste ma dimostra invece che il territorio ha urgente bisogno di manutenzione attraverso non interventi una tantum ma con un vero progetto di messa in sicurezza del territorio e qui, ribadiamo, che occorrono regole chiare che facilitino gli interventi, basate sulle reali necessità di un territorio fragile difronte alla violenza di eventi climatici avversi e non su basi ideologiche. Ormai abbiamo visto che anche i piccoli fossi hanno carattere torrentizio; se non si ripuliscono da legname e detriti questi vengono trasportati con violenza dalla furia improvvisa delle acque e accumulati contro un ostacolo tanto da ostruire poi il deflusso come del resto è successo.
È superfluo qui ricordare come la cementificazione selvaggia contribuisca ad aggravare queste situazioni; lo sappiamo tanto bene ma ogni anno il rapporto ISPRA sul consumo di suolo ci dice che la cementificazione aumenta anno dopo anno al ritmo di oltre 2 metri quadrati al secondo!
Certo viviamo in un’epoca che ha visto cambiamenti epocali; ad esempio, se esaminiamo delle foto degli anni 60-70 del secolo scorso proprio di quelle aree dell’Emilia-Romagna colpite dall’alluvione (ma anche della Val di Cecina) vediamo dei campi baulati con tanto di scoline o affossature laterali. Erano le sistemazioni idraulico-agrarie di pianura che i nostri maestri agronomi ci spiegavano all’Università e il loro scopo era proprio quello di consentire la corretta regimazione delle acque evitando quei ristagni idrici dannosi alle colture. Oggi di quelle sistemazioni non c’è più traccia, le scoline non ci sono più; si dirà che, in molti casi, sono state sostituite da drenaggi sub superficiali ma è altrettanto noto che con le piogge violente l’acqua non si infiltra (è stato ampiamente dimostrato che ne perdiamo il 90%) perché l’impatto delle gocce distrugge gli aggregati e i sedimenti occludono i pori. L’occlusione dei pori avviene anche in caso di presenza di copertura vegetale tanto è violento l’impatto. In caso di nubifragi, quindi, i terreni si allagano velocemente e, al contrario, le acque defluiscono molto lentamente con inevitabili danni alle colture.
Nonostante questo, si assiste ancora a impianti di nuove colture arboree come, ad esempio, gli oliveti intensivi in svariati ettari completamente pianeggianti, con impianti per l’irrigazione a goccia, ma non con affossature per far defluire le acque in caso di eccesso, quindi è normale che le situazioni che stiamo vivendo si ripeteranno sempre più frequenti nelle aree che di volta in volta verranno colpite.
Manca una reale percezione della fragilità del territorio e soprattutto dei suoli; manca una programmazione di lungo termine e, soprattutto, manca un programma di messa in sicurezza del territorio che coinvolga e sostenga gli agricoltori a reintrodurre, in chiave moderna, le sistemazioni idraulico-agrarie. Senza questo anche i buoni propositi della legge europea sul ripristino della natura saranno del tutto inutili. L’esasperazione degli agricoltori, come hanno dimostrato nelle manifestazioni di qualche tempo fa, dipende dalla mancanza di un reddito dignitoso, per questo devono essere adeguatamene coinvolti e deve essere riconosciuto loro, anche in termini economici, lo sforzo e le azioni in favore della protezione del territorio. La sensazione è che la maggior parte degli agricoltori non percepisce la gravità della degradazione dei propri suoli e per questo è necessaria un’adeguata informazione e un’altrettanto adeguata formazione visto, proprio, che l’obiettivo primario dell’agricoltura deve essere quello di ottenere prodotti di qualità e per questo è fondamentale lo stato di salute del suolo. Un suolo degradato, oltre a produrre meno, non garantisce la qualità richiesta.