Pagliai – Le produzioni di nicchia rappresentano, in molti casi, una vera eccellenza nel panorama delle produzioni agricole e forestali che, per la verità, non stanno attraversando un periodo particolarmente florido, sia da un punto di vista ambientale, sia, soprattutto, da un punto di vista economico. Fra queste produzioni di nicchia vi è sicuramente il tartufo a cui, negli ultimi decenni, si sono intensificati gli studi proprio per conoscerne le condizioni di crescita nel tentativo di migliorarne la produzione. A parte le piante micorizzate, quali sono le condizioni ottimali del suolo per la produzione dei vari tipi di tartufo?
Bragato – Premettendo che i veri tartufi, i corpi fruttiferi dei funghi Ascomiceti del genere Tuber spp., le caratteristiche che influiscono sull’ambiente suolo che colonizzato sono separabili in due gruppi. Da una parte le caratteristiche chimiche dei suoli ricchi in Calcio: presenza di carbonato di Ca e/o complesso di scambio dominato dal Ca, con valori di pH superiori a 6,5 e molto spesso maggiori di 7,2. Dall’altra aspetti fisici determinati da una struttura del suolo molto porosa e permeabile.
La componente chimica è stata verosimilmente un fattore di speciazione del genere Tuber. Con l’emersione di rocce e sedimenti calcarei, l’adattamento delle specie tartufigene ad ambienti chimicamente preclusi a gran parte dei funghi micorrizici ha aperto grandi spazi in cui diffondersi quasi in assenza di concorrenza. La componente fisico-strutturale consente invece un facile accesso all’ossigeno atmosferico (i funghi micorrizici sono organismi aerobi obbligati) e favorisce lo sviluppo dimensionale dei tanto apprezzati tartufi.
Le due componenti hanno anche un diverso peso in rapporto alla distribuzione geografica degli habitat tartufigeni. Secondo i criteri chimici, più di metà del territorio italiano sarebbe idoneo ai tartufi, ma quelli fisico-strutturali riducono drasticamente le aree vocate. Non esistono stime in questo senso, ma la mia esperienza sul tartufo bianco pregiato (T. magnatum) mi fa propendere per valori inferiori all’1% dei suoli a carbonati/ricchi in Ca scambiabile.
La grande selettività della componente fisico-strutturale è attribuibile alla presenza di molti pori con diametro maggiore di 30 µm che, oltre a facilitare i movimenti dell’aria, determinano una elevata capacità drenante del suolo, rendendo potenzialmente aridi i suoli da tartufo. Di conseguenza, gli habitat tartufigeni si restringono alle aree in cui vengono limitate le perdite d’acqua per evaporazione e/o garantiscono agli alberi simbionti l’accesso a riserve idriche sotto superficiali anche profonde.
Da un punto di vista biologico la combinazione elevato drenaggio/adeguata idratazione determina la prevalente maturazione dei tartufi in autunno-inverno. Grazie a specifici adattamenti biologici, solo due specie maturano in periodi diversi. Il tartufo bianchetto o marzuolo (T. borchii), prediligendo suoli tendenzialmente sabbiosi, matura a marzo-aprile, quando le sabbie inumidite dalle piogge primaverili raggiungono la massima sofficità e offrono la minima resistenza allo sviluppo dimensionale dei corpi fruttiferi. Il tartufo estivo (T. aestivum), invece, sfrutta l’ispessimento del peridio del corpo fruttifero (da cui il nome alternativo di “tartufo scorzone”) come difesa dal disseccamento. Con questa modifica anatomica, lo sviluppo dimensionale viene disgiunto dalla fase di maturazione: le piogge primaverili consentono l’ingrossamento dei tartufi, segue una fase di stasi fino alle poche piogge estive che attivano la fase di maturazione nel periodo più secco dell’anno.
Pagliai – Circa le prospettive future, è possibile ipotizzare una vera e propria coltivazione oppure questa deve rimanere il più possibile naturale?
Bragato – Più che di un’ipotesi si tratta di una realtà consolidata per T. melanosporum, la cui coltivazione iniziò nel 1814 grazie all’idea di Joseph Talon di Saint-Saturnine-les-Apt di seminare le ghiande di querce produttive. Le attuali tecniche di micorrizazione con T. melanosporum, T. aestivum e T. borchii (in ordine di superficie produttiva) si basano però sui lavori di Gerard Chevalier, ricercatore INRAE che a metà degli anni ‘70 mise a punto le procedure per la produzione vivaistica di piante micorrizzate. Da quel momento, la tartuficoltura è diventata un’attività agricola che dalla Francia si è espansa prima in Europa e poi in Australia. All’inizio degli anni 2000, lo stesso Chevalier ha chiuso in bellezza la propria carriera riuscendo nella micorrizzazione del T. magnatum, la cui coltivazione è ora in corso di sperimentazione.
Con la micorrizzazione massale sono iniziate anche le prove agronomiche per rendere sempre più efficienti le pratiche colturali, con particolare attenzione al sesto d’impianto, alla potatura degli alberi simbionti, alle lavorazioni del suolo e infine all’irrigazione.
Nonostante i progressi della tartuficoltura, la produzione naturale ha ancora un’importanza fondamentale, anche perché da diversi decenni si sta manifestando un calo produttivo del tutto in controtendenza con la domanda dei mercati mondiali. L’Italia è il paese mediterraneo con la maggiore estensione di aree produttive naturali e, cosa non scontata, con le maggiori conoscenze sugli habitat tartufigeni. Sappiamo quali interventi fare per invertire il calo produttivo (recupero delle arre vocate in abbandono, gestione della copertura arborea, contenimento della vegetazione arbustiva, gestione del suolo) ma servono interventi anche legislativi per rendere appetibili pratiche agroforestali che richiedono tempo, fatica e solo nel medio termine una prospettiva di un pareggio economico.
Pagliai – Siamo nel bel mezzo di una crisi climatica caratterizzata da eventi piovosi estremi concentrati in un brevissimo periodo e da lunghi e frequenti periodi di siccità con forti ripercussioni sulla produzione agricola e sull’ambiente compreso, ovviamente, la produzione di tartufi. Già ora i lunghi periodi di siccità mettono a repentaglio la produzione e le prospettive future indicano il perseverare di questa crisi. Come si può contrastare?
Bragato – Nel passato, le simbiosi tartufigene hanno risposto ai cambiamenti climatici inseguendo l’habitat (“habitat tracking”). In un importante lavoro pubblicato nel 2010 su Nature, Martin e altri hanno dimostrato questa ipotesi per il tartufo nero di Norcia/Perigord (T. melanosporum): nel corso dell’ultima glaciazione il fungo è migrato a sud, sopravvivendo in siti rifugio della Spagna centrale e dell’Italia meridionale, per percorrere la strada inversa nel post-glaciale. Il cambiamento climatico non può che spingere le specie tartufigene a spostare il proprio baricentro verso le barriere naturali più settentrionali: l’isola svedese di Gotland, già raggiunta dal T. aestivum; verosimilmente i rilievi dell’Alsazia e della Baviera per il T. melanosporum. Più precaria è la situazione del T. magnatum. I confini attuali sono dislocati sulla linea Drava orientale-Tibisco meridionale-Danubio ma la fascia dei suoli su loess e alluvioni ghiaiose delle pianure ungheresi e tedesche non sembra consentire ulteriori movimenti verso nord.
Una risposta guidata dall’uomo potrà essere invece la piantagione di semenzali micorrizzati oltre le attuali barriere. La difficoltà, che riguarda anche la tartuficoltura, sta nell’identificare aree idonee al di fuori degli areali attuali. Dato che le specie tartufigene sembrano essere alquanto rigide per l’habitat di crescita, diventa fondamentale la preparazione e l’esperienza di “soil scientists” dotati di visione d’insieme sulla combinazione dei fattori fisici, chimici e biologici da considerare. Se il divario sta nei particolari, qui il particolare è che in tempi di super-specializzazione si stanno rarefacendo proprio grazie a figure “generaliste”, come quella del pedologo, capaci di dare risposte utili e ponderate.
In tartuficoltura, il cambiamento climatico può essere affrontato con l’infittimento del sesto d’impianto (per incrementare l’ombreggiatura) e l’irrigazione. In entrambi i casi vi sono esperienze consolidate e l’irrigazione è imprescindibile in Spagna e utile in Francia, Italia e qualche altro Paese europeo. L’uso delle risorse idriche può però di diventare un fattore critico in termini di sostenibilità ambientale. A titolo di esempio, in diversi territori si ricorre a falde idriche poste anche a grandi profondità con il rischio di creare seri problemi di ricarica della falda.
Un ultimo aspetto riguarda espressamente il T. magnatum che, dipendendo dalla presenza di grandi volumi d’acqua nel sottosuolo, va come minimo gestito alla scala di micro bacino idrologico. In questo caso il cambiamento climatico può essere combattuto anche attraverso una più attenta gestione idraulica delle aree agricole che circondano i suoi habitat.