Pagliai – Caro Enrico che bello ritrovarsi ancora una volta a parlare di agricoltura! Sembra quasi continuare un dialogo iniziato 60 anni fa nei corridoi di quel mitico Istituto Tecnico Agrario di Grosseto. Ma lasciamo l’emozione e veniamo a noi e, a proposito di ricordi, noi apparteniamo a quella generazione alla quale i nostri Maestri di Agronomia nelle loro lezioni all’Università ci dicevano che “con la modernizzazione dell’agricoltura si è persa la coscienza sistematoria”. Le conseguenze di quell’abbandono sono ben evidenti, soprattutto nell’ultimo decennio. Inoltre, sempre a titolo di esempio, già alla fine del secolo scorso furono lanciati allarmi inerenti i cambiamenti climatici e l’insorgere di problemi di siccità. Questo per sottolineare che i risultati della ricerca meriterebbero maggior attenzione.
Bonari – Caro Marcello, grazie per l’invito e per le belle parole con cui hai introdotto il nostro dialogo sulla sostenibilità dell’agricoltura oggi! È difficile esprimersi in maniera univoca sui riflessi negativi che la modernizzazione dell’agricoltura avrebbe avuto sulla perdita della “coscienza sistematoria” degli agricoltori e, quindi, sulla conservazione delle sistemazioni idraulico-agrarie dei terreni. A mio avviso, infatti, le crescenti necessità di meccanizzazione delle operazioni colturali e di riduzione dei costi di produzione a livello aziendale, hanno promosso una inevitabile revisione degli elementi fondamentali delle “sistemazioni”, sia nelle aree di pianura che in quelle collinari. Il problema della conservazione della funzionalità del sistema, è sorto allorché si è pensato che gli appezzamenti coltivati potessero essere lunghi e/o larghi a nostro piacimento per la massima velocizzazione del lavoro delle macchine, senza tener conto (o quasi) di tutte le problematiche relative alle caratteristiche del suolo, dell’entità delle piogge e della loro distribuzione sul territorio, ma, soprattutto, senza tener conto che le sistemazioni del terreno e le lavorazioni dello stesso sono inevitabilmente interagenti nel creare e mantenere nel tempo condizioni di ottimale abitabilità per gli apparati radicali delle piante coltivate. Credo anche io che un approccio multidisciplinare al problema ed una più attenta ed accettabile politica degli interventi a scala territoriale, avrebbe potuto far raggiungere un sufficiente livello di “modernizzazione” dei sistemi colturali senza incorrere negli effetti negativi frequentemente registrati – ed esaltati dai cambiamenti climatici – anche in termini di rischi di erosione del suolo, di abbandono delle aree coltivate, di conservazione della fertilità del terreno e, di conseguenza, anche del paesaggio agrario delle nostre regioni. Se poi alle valutazioni più squisitamente agronomiche aggiungiamo i problemi sollevati, soprattutto nelle aree pianeggianti – ma non solo – dal pressoché incontrollato espandersi delle costruzioni civili ed industriali, appare chiaro come l’argomento dovesse da tempo essere affrontato con un approccio decisamente più “sostenibile”. Non c’è spazio per trattare come meriterebbero i molti rimedi che è possibile mettere in campo come, ad esempio, la manutenzione delle affossature permanenti, la rinaturalizzazione dei corsi d’acqua, l’agro-forestazione diffusa, il maggior ricorso alle affossature temporanee, i piazzali e parcheggi drenanti, le aree di raccolta e di fitodepurazione delle acque di scolo, i sistemi di rifornimento delle falde acquifere, ecc.
Pagliai – Nelle loro recenti proteste gli agricoltori se la sono presa con le misure ambientali varate dall’Unione Europea (green deal); eppure si stima che i 2/3 dei nostri suoli sono in un preoccupante stato di degrado, a causa anche del progressivo e preoccupante depauperamento della sostanza organica che oggi nella maggior parte dei suoli è largamente al di sotto di quella soglia del 2% ritenuta necessaria per mantenere livelli accettabili di fertilità, tanto che si rileva un calo di produzione nonostante la fertilizzazione chimica sempre più costosa tanto da essere un altro motivo delle suddette proteste. Forse gli agricoltori non hanno l’esatta percezione dello stato di salute dei suoli delle loro aziende?
Bonari – Condivido pienamente la tua preoccupazione finale sullo stato di salute dei suoli e, per quanto mi riguarda, credo proprio che nella stragrande maggioranza dei casi la risposta sia negativa. Nelle mie esperienze dirette in molte aziende agricole della Toscana – inserite nei diversi progetti di ricerca e/o di trasferimento dell’innovazione da me seguiti negli ultimi 40 anni – ho avuto modo di registrare numerose analisi del terreno riguardo al contenuto in sostanza organica e, salvo pochissime eccezioni in alcune aziende zootecniche (ma non in tutte) non ho mai rilevato contenuti in humus superiori alla soglia di sufficienza da te ricordata; anzi nelle aziende ad indirizzo cerealicolo-industriale, sia di pianura che in collina, mi sentivo soddisfatto se arrivavamo al 1,5%. Hai ragione, non c’è nelle aziende una adeguata percezione del valore della sostanza organica del terreno e credo che in molti casi il problema sia legato da un lato al non facilmente sostenibile costo delle analisi di laboratorio e dall’altro dal modesto aiuto che oggi molti degli agricoltori ricevono in termini di assistenza tecnica. Io resto dell’opinione che la fertilità di un qualunque tipo di terreno – e quindi anche gran parte della sua produttività potenziale – sia sostanzialmente misurabile dal livello di humus stabile presente nel terreno stesso. E ritengo perciò che non sia pensabile organizzare il sistema colturale aziendale (soprattutto le scelte relative agli avvicendamenti, alle lavorazioni del terreno e alla gestione dei residui) senza fare una adeguata stima/bilancio preventivo dell’humus nel tempo: apporti medi di sostanza organica x resa in humus, a fronte del tasso annuo medio di mineralizzazione dell’humus stabile del terreno.
Conservare la fertilità del terreno vuol dire conservarne la sostanza organica e gli agricoltori sono al riguardo gli attori ed i responsabili principali: avvicendamenti più lunghi possibile (con anche colture poliennali se compatibili), lavorazioni principali del terreno assolutamente ridotte sia per numero che per profondità, tecniche adeguate di lavorazione minima e di non-lavorazione, gestione corretta delle epoche di semina e dei residui colturali e delle altre fonti di sostanza organica.
Pagliai – Tu sei sempre stato molto attento alle problematiche ambientali e, di conseguenza, alle qualità del suolo. Sei stato fra i primi nel campo dell’agronomia a lanciare l’allarme sul progressivo deperimento della sostanza organica e a sottolineare la necessità di rivedere le lavorazioni del terreno tanto che nel 1986 organizzasti a Viterbo un convegno proprio sul tema delle lavorazioni del terreno suscitando qualche critica dal vecchio mondo accademico ancora legato alla necessità delle lavorazioni profonde. Hai sempre sostenuto che la sostenibilità in agricoltura è sorretta da tre gambe: ambientale (in particolare proprio in riferimento al mantenimento della fertilità del suolo), economica e sociale; ma quanto è difficile armonizzarle?
Bonari – In verità le mie ricerche “in campo” sulle più adeguate lavorazioni principali del terreno per le principali colture erbacee di pieno campo inserite nei sistemi colturali tipici dell’agricoltura mediterranea iniziarono con la crisi energetica del 1973 (ricordiamoci il divieto d’uso delle auto la domenica); quando le arature – per lo più attuate con le trattrici a cingoli di medio/alta potenza – erano senz’altro le operazioni agricole che richiedevano i tempi di esecuzione ed i consumi di carburante più elevati. Grazie alla disponibilità delle macchine e delle superfici necessarie presso il Centro “E. Avanzi” dell’Università di Pisa abbiamo nel tempo accumulato una quantità incredibile di dati relativi ai tempi ed ai consumi delle macchine di varia potenza impiegate per le lavorazioni del terreno in differenti tipi di suolo e, analogamente, abbiamo registrato gli effetti di queste sulle principali colture di pieno campo. In estrema sintesi fu possibile stabilire la sostanziale inutilità di adottare profondità di aratura superiori ai 25-30 cm e la concreta possibilità di sostituire l’aratura con la discissura e, anche, le notevoli opportunità offerte, già allora, dalla lavorazione minima e dalla semina su sodo, con notevoli ritorni economici a livello aziendale. Ed insieme a queste esperienze sulle lavorazioni del terreno, ho avuto anche modo di attivare una serie di ricerche sui “sistemi colturali” a differente impiego di input (più o meno intensivi) dove per avvicendamenti di differente lunghezza (biennali, triennali e quinquennali), con diverse colture erbacee a confronto, abbiamo saggiato gli effetti “integrati” di lavorazioni principali e secondarie, concimazione fosfo-azotata, diserbo chimico, ecc., alla ricerca di ridurre il più possibile il costo ed il rischio ambientale dell’intero processo produttivo. Fu agli inizi degli anni ’90 che, grazie ai decenni di ricerche che avevo avuto la fortuna di poter seguire, diventai un convinto sostenitore (del resto non era altro che l’agronomia “fatta bene”) dell’agricoltura “integrata” per le aree produttive dell’Italia centro-meridionale, nella quale, senza incorrere in inaccettabili variazioni delle rese delle principali colture erbacee di piano campo, risultava possibile un incremento del reddito lordo a livello aziendale di almeno il 15-20% ed un costante piccolo incremento della sostanza organica del terreno.