Tutte le volte che, sui media, capita di affrontare l’argomento del riscaldamento globale e dei pericoli connessi, vengono messe al primo posto, in evidenza, le attività relative alla produzione degli alimenti di origine animale, presentate come la principale fonte di gas serra. Quasi che tutte le altre fonti antropiche, a cominciare dalle centrali elettriche alimentate con combustibili fossili, le industrie o i trasporti, fossero inquinanti di dimensioni e pericolosità trascurabili.
Il risultato di questa ricorrente colpevolizzazione sta spingendo ricercatori, associazioni ed industrie del settore zootecnico a studiare e proporre piani di alimentazione degli animali e gestione degli allevamenti volti ad abbattere il più possibile le emissioni di gas carboniosi.
La collaborazione fra gli attori del settore lattiero-caseario comporta una sorta di “task force” della comunità globale in rapida crescita, denominata “Pathways to Dairy Net Zero” (P2DNZ), per iniziativa della “Global Dairy Platform” (GDP).
I contenuti programmatici del progetto sono stati oggetto di un recente webinar che ha avuto luogo il 17 gennaio scorso. In quella occasione, si è partiti dalla considerazione per cui le attività legate alla produzione di latte, per essere sostenibili, devono riguardare una moltitudine di componenti, dalla riduzione degli effetti sull’ambiente, all’uso responsabile delle risorse naturali, alle garanzie di sicurezza alimentare per il consumatore, dall’ottimizzazione della catena alimentare, alla salute e benessere animale. Negli ultimi anni è stato fatto molto, ma molto è possibile ancora fare, soprattutto migliorando la produttività e la salute animale. Ciò è possibile attraverso il miglioramento genetico, le strategie di nutrizione e alimentazione delle bovine e le risoluzioni innovative manageriali.
Entrando più in dettaglio, si è osservato che le emissioni di metano, il gas serra che pesa di più fra quelli emessi dai ruminanti, variano quantitativamente molto a seconda della località geografica di produzione: non c’è confronto fra Europa e Nordamerica rispetto a, ad esempio, Brasile e India. Ne consegue, ovviamente, che la riduzione delle emissioni di metano è maggiormente necessaria laddove le produzioni di latte sono più basse e le condizioni socio-economiche sono peggiori.
È importante tenere presente che i singoli passaggi dell’intera filiera di produzione (alimenti, composizione delle diete, condizioni di allevamento dei vitelli, gestione dei liquami, ecc.) contribuiscono ciascuno individualmente allo scopo finale di ridurre il “carbon footprint” globale. Da questo punto di vista, si valuta che le fermentazioni enteriche contribuiscano per il 70-80% sul "carbon footprint" finale. Leggiamo, ad esempio, che ridurre l’età al primo parto a 22 mesi può portare ad una riduzione totale del 6 % di emissioni. O che, semplicemente cambiando l’origine di approvvigionamento di ingredienti come la soia o l’olio di palma, si possa influire significativamente sulla quantità e qualità delle emissioni di gas climalteranti. Uno degli intervenuti, Johm Newbold dello Scotland’s Rural College, ha posto l’accento sulla qualità, in termini di digeribilità, del foraggio che dovrebbe costituire la quota quantitativamente più importante degli alimenti che la bovina da latte consuma. Ciò si ottiene curando i trattamenti e il miglioramento genetico dei foraggi e l’uso corretto dei concentrati. Paradossalmente, sembra che le bovine di elevato valore genetico non siano in grado di trarre nutrienti a partire delle pareti cellulari vegetali dei foraggi in maniera soddisfacente. Si consiglia allora di impiegare foraggi a basso contenuto di pareti cellulari, come la medica o il trifoglio, tenendone conto nella formulazione della dieta.
L’intervento di Frank Mitloehner dell’Università della California ha richiamato poi l’attenzione su un argomento di cui si sono recentemente occupati anche alcuni nostri colleghi italiani (Correddu et al., 2023, Ital. J. Anim. Sci., 22: 125-135): i metodi di misura e di calcolo delle emissioni di metano attribuibili alle attività zootecniche vanno rivisti. È vero che il metano è un gas serra pesante, nel senso che ha un effetto sul clima circa venti volte quello della CO2, ma è anche vero che ha una semi-vita molto breve in atmosfera e di ciò si deve tener conto. Il sistema di misura comunemente usato sovrastima l’impatto del metano sul riscaldamento, quando aumenta, e ne sottostima l’effetto sul raffreddamento, quando diminuisce, come riportato dall’ultimo rapporto IPCC del 2021. Il nuovo sistema di misura si identifica con la sigla GWP* ed è stato messo a punto dai fisici dell’atmosfera dell’università di Oxford. (Allen et al., 2016, Nat. Clim. Change, 6: 773-776; Allen et al., 2018, NPJ Clim. Atmos. Sci., 1:1-8; Allen et al., 2022, NPJ Clim. Atmos. Sci., 5:1-16).
Le fonti dei gas serra prodotti dall’uomo sono molte. La quota prodotta dalle attività zootecniche è senz’altro minoritaria (FAO, 2019), eppure le attività zootecniche, in particolare quelle da latte, sono spesso indicate come le peggiori responsabili. Riconosciamo che non è così, anche alla luce dei nuovi sistemi di valutazione e di calcolo che, ridimensionando le responsabilità dei ruminanti, ci fa sentire meno in colpa.