Realtà e prospettive per il settore vitivinicolo nazionale

A colloquio con Lamberto Frescobaldi (UIV): “Occorre capire i consumatori di oggi e soprattutto quelli di domani”.

di Giulia Bartalozzi
  • 03 April 2024

Dottor Frescobaldi, in occasione dell'inaugurazione del 75° anno accademico dell'Accademia della Vite e del Vino, che si è svolta pochi giorni fa, Lei come Presidente dell'Unione Italiana Vini (UIV) ha svolto una prolusione dal titolo: "Situazione attuale e prospettive per il settore vitivinicolo nazionale". Innanzi tutto, qual è lo stato di salute generale del settore?
Avete registrato flessioni per i cambiamenti climatici o a seguito della campagna salutista contro il consumo di alcol, che ogni tanto ritorna anche sui media italiani
?
Lo stato di salute del settore può essere definito buono, soprattutto se lo guardiamo in rapporto al contesto in cui stiamo vivendo, fatto di turbolenze quando non di vere e proprie tempeste. Dopo il Covid, ci eravamo illusi che il mondo sarebbe ritornato su un sentiero di relativa tranquillità e invece ci siamo trovati ad assistere a più di una guerra, a subire tensioni economico-finanziarie e politiche. Anche il 2024 non è iniziato nel migliore dei modi, come dimostrano gli accadimenti recenti. Il vino, essendo un prodotto fatto dagli uomini per gli uomini, non può non risentire di tutto questo: quando si ha la febbre, si cerca prima di tutto di guarire. Quindi, alla luce di quanto sta accadendo, le performance – anche leggermente negative – che hanno contraddistinto il 2023 devono essere prese con ottimismo. Vero che – guardando nello specifico del nostro settore – le politiche antialcol stanno facendo clamore, ma riteniamo che in linea generale non siano queste a incidere sui consumi. E’ in atto – soprattutto in Occidente – una presa di coscienza dell’importanza della propria salute, un effetto post-pandemico spesso sottovalutato, per cui le persone tendono a cercare nel cibo che mangiano e nelle bevande che bevono sia elementi salutari, sia edonistici. Il vino – ma direi anche l’alcol in genere - sta in questa seconda aspirazione: oggi si beve qualcosa per il piacere che esso dà in termini anche e soprattutto di gratificazione, sia essa personale o anche sociale. Le persone scelgono la bevanda alcolica sempre più spesso in rapporto alla coerenza che essa ha con il proprio stile di vita. La sostenibilità di cui tanto si parla dimentica spesso e volentieri l’elemento umano, ma la ricerca di prodotti “sostenibili per lo spirito e per il corpo” – quindi, tanto per fare esempi non esaustivi, a basso contenuto non solo alcolico ma anche zuccherino - è oggi uno degli elementi chiave nei processi d’acquisto, che stanno portando a una riduzione strutturale dei consumi tradizionali, compensata da un aumento di quelli non tradizionali.

Un passaggio della sua prolusione si intitola "Il nuovo volto dell'Italia", perché?
L’Italia è il solo Paese che ha visto un’esplosione produttiva così ampia e così veloce in una sola categoria di prodotto, lo spumante, passato in poco meno di dieci anni da una quota dell’8% sul totale al 14% odierno. Se fino al primo decennio del Duemila lo spumante era una prerogativa delle regioni del Nord, oggi si fa sparkling praticamente in tutti gli areali, fino alla Sicilia.
L’espansione delle bollicine ha prodotto profondi cambiamenti nell’immagine del nostro Paese presso i mercati, soprattutto quello americano e inglese, ma segnali di fortissima crescita delle bollicine a discapito soprattutto dei rossi si sono avuti e si stanno avendo anche in Scandinavia e nell’Europa dell’Est aderente all’Ue (Polonia, Repubblica Ceca ecc.). Emblematica la trasformazione operata dal nostro Paese in Francia, nostro diretto competitor, dove siamo passati da essere anonimi produttori di sfuso a produttori di vini di medio-alto valore e in particolare di bollicine.
A differenza dei Boomers, che hanno conosciuto l’Italia attraverso i vini fermi, soprattutto rossi, oggi le giovani e giovanissime generazioni quando fanno la spesa ricevono un’immagine plastica del nostro Paese come produttore di vini bianchi, perché in fondo anche lo spumante è un vino bianco con le bollicine. Questo inciderà profondamente sulla richiesta nel medio-lungo termine da parte di questi consumatori una volta diventati “maturi”.

Com'è la situazione dell'export del nostro vino? Cambierà la produzione? Gli espianti dei vigneti in alcune zone, come stanno facendo in Francia, sono una possibile soluzione?
Come detto in precedenza, lo spostamento delle richieste dei consumatori verso tipologie diverse dal rosso andrà piano piano a porre dei seri quesiti soprattutto in quelle regioni che sono sbilanciate verso questo prodotto. Sicuramente, guardando in ottica di lungo periodo, lo spazio per produzioni massive e di qualità medio-bassa si ridurrà, anche perché per operare in questo segmento bisogna avere davvero spalle larghe e altissima efficienza, giocando su margini risicatissimi. Si avrà invece sempre più spazio per produzioni di qualità alta, che non necessariamente si identifichi con prezzi da premium wines: se, come dicevamo in premessa parlando di consumatori, la ricerca del vino deve accompagnare stile di vita e benessere, questi elementi possono anche prescindere dal prezzo elevato del prodotto.

Parlando di espianti, crediamo che non possano essere una soluzione, soprattutto se finanziati: abbiamo già visto gli effetti delle estirpazioni con premio adottate dall’Europa una quindicina di anni fa, soluzione che da una parte ha risolto solo temporaneamente il problema dell’overproduzione, ma che dall’altra ha depauperato le aree più vocate, quelle collinari e montane. La politica comunitaria – e quella italiana e locale in particolare, visto che l’agricoltura nel nostro Paese è materia regionale - dovrebbe invece ragionare su strumenti idonei a rendere più competitive le aree dove coltivare la vite è più oneroso e difficile, a incentivate il rientro dei giovani in viticoltura, perché i giovani portano dinamismo nuovo in un settore che pare un po’ indietro dal punto di vista del rapporto proprio con i giovani consumatori. Insomma, finanziare con coraggio le progettualità e l’innovazione, ovunque esse siano.

 Perché Lei definisce le DOP un "rifugio necessario"?
Non dico un’eresia quando affermo che i brand di vino italiani internazionalmente riconosciuti – intendendo ai quattro angoli del pianeta – si contano sulle dita di una mano. Le aziende italiane sono mediamente piccole e poco conosciute, per cui la denominazione diventa un vero e proprio “rifugio”, un surrogato popolare presso il pubblico a marchi aziendali poco noti o spendibili. Per la stragrande maggioranza delle aziende italiane, è la Dop il vero brand, il lasciapassare d’ingresso sui mercati. Il rovescio della medaglia è che la gestione di un brand collettivo, qual è la DOP, presuppone grande maturità, nel senso della ricerca di compromessi tra interessi diversi: il piccolo contro il grande, l’imbottigliatore contro la cooperativa. In molti territori, specialmente in quelli in cui la denominazione ha incominciato a sentire gli acciacchi del tempo, per resistere ai quali ci si dovrebbe mettere attorno a un tavolo per scrivere nuove e più performanti regole del gioco, la difficoltà è proprio questa, rinunciare a un pezzo di un mio vantaggio particolare in nome dell’interesse generale. Di qui le infinite tensioni che si leggono sulle cronache dei giornali in seno ai consorzi di tutela ogni volta che si deve modificare un disciplinare per rendere il prodotto più competitivo sul mercato.

Quale direzione ricerca e innovazione dovrebbero prendere per aiutare al meglio il settore?
In parte abbiamo risposto in precedenza, parlando di supporto alla “viticoltura dei giovani”. Il settore ha grande bisogno di guardare avanti, di immaginare quale sarà il proprio spazio vitale in Italia e nel mondo. Capire i consumatori di oggi e soprattutto quelli di domani, i loro nuovi bisogni e aspettative, studiare i fenomeni di successo prodotti da altri settori, come gli spirits o le bevande in genere, e adeguare se del caso la ricetta al proprio vissuto. Credo che la consapevolezza del fatto che siamo arrivati a un bivio ci sia, forte, in tutte le anime della filiera. Le risposte comuni però faticano ad arrivare: spendere soldi in questo momento storico per distruggere vigneti e vino a noi pare anche eticamente sbagliato. Capire il perché parte della viticoltura italiana sta andando fuori mercato e provare a trovare sbocchi alternativi, che presuppongano reinvestimenti mirati in pratiche colturali innovative, può essere una strada da percorrere. Noi come Unione Italiana Vini siamo pronti al dialogo con tutti i soggetti della filiera, a patto però che si eviti di riproporre quelle ricette del recente passato che ci hanno portato esattamente dove siamo oggi.