Le preoccupanti condizioni delle attività agricole in conseguenza dei cambiamenti climatici e la conseguente scarsa disponibilità di alimenti proteici stanno spingendo i ricercatori a cercare nuove fonti, soprattutto a partire dai sottoprodotti e dagli scarti alimentari.
I gusci delle mandorle, oltre ad essere comunemente usati come combustibile al posto dei pellet, possono essere un ottimo materiale di partenza. È questo l’argomento di un recente lavoro dal titolo “Production of high protein yeast using enzymatically liquefied almond hulls”, (Sitepu et al., PLoS One, 2023, 18(11): e0293085).
I ricercatori dell’Università di Davis (California) sono partiti dal fatto che in California la produzione delle mandorle genera circa tre tonnellate di biomassa all’anno, di cui il 50% sotto forma di gusci. Ed hanno proposto per i gusci di mandorle una possibile utilizzazione come sottoprodotto di scarto, potenziale fonte di proteine alimentari.
Siamo tutti d’accordo che, con il riscaldamento globale che incombe e con la necessità di fornire soprattutto proteine alimentari alla popolazione mondiale che cresce esponenzialmente, ben vengano iniziative come quella dei ricercatori dell’università di Davis che propongono una forma sostenibile di produzione proteica, compatibile con l’agricoltura circolare, da usare in alimentazione animale. L’impiego di sottoprodotti e prodotti di scarto alimentari, non solo contribuisce a ridurre l’impiego di terreno coltivabile e la necessità di bruciare i residui, con produzione di gas serra, ma può portare benefici alla nutrizione proteica degli animali da reddito.
I gusci delle mandorle vengono fermentati con lieviti che consumano una larga porzione dei saccaridi contenuti nei gusci come fonte energetica per produrre grandi quantità di aminoacidi essenziali, importanti per l’alimentazione animale. L’analisi della composizione dei gusci di mandorla ha dimostrato che questo materiale è ricco di pectine e saccarosio. Pertanto, il processo inizia con la fermentazione indotta da enzimi pectinolitici che liquefano il prodotto e rilasciano zuccheri solubili e proteine prodotte dai lieviti usati come fonti enzimatiche per le fermentazioni.
Gli stessi ricercatori della UC Davis stanno lavorando anche su un altro prodotto agricolo di scarto, il pastazzo d’uva. Usandolo come substrato fermentativo con gli stessi lieviti impiegati sui gusci di mandorle, se ne ricava un olio che solidifica a temperatura ambiente che può egregiamente sostituire i grassi animali e, in particolare, il famigerato olio di palma, come componente energetico nelle diete per animali.
Col riscaldamento globale e l’esponenziale crescita della popolazione umana da sfamare, la messa a punto di processi di produzione industriale alternativi e sostenibili di alimenti risulta vitale. L’impiego di sottoprodotti e prodotti di scarto agricoli come alimenti per il bestiame, oltre a risparmiare terreno agricolo e pericolose combustioni del materiale considerato di scarto, comporta anche benefici di carattere economico e nutrizionale per gli animali.
Negli ultimi tempi stiamo assistendo ad un proliferare di studi e ricerche su come valorizzare quanto prodotto in agricoltura in termini di sostenibilità e salvaguardia dell’ambiente. Ciò dimostra che il settore agricolo è estremamente sensibile ai problemi conseguenti, soprattutto, alle attività antropiche produttrici di gas serra.
Non altrettanto sensibili sembrano altri settori di attività umane.
Nel ricordare a chi non avesse ben chiara la differenza fra fonti di carbonio rinnovabili, quali sono gli alimenti (anche del bestiame), all’interno dei quali l’anidride carbonica presente in atmosfera è stata organicata per fotosintesi clorofilliana, e le fonti di carbonio fossili, quali i gas naturali, il carbone o il petrolio, che producono gas serra ex novo per combustione, osserviamo che gli animali allevati contribuiscono, fra l’altro, in misura molto minore e non pericolosa all’inquinamento di origine antropica.
Eppure sembra che questa semplice osservazione sia estremamente difficile da comprendere, tanto che c’è chi vorrebbe vivere in un mondo in cui l’agricoltura fosse praticata senza le attività produttive zootecniche, magari con campi non coltivati perché coperti da pannelli fotovoltaici. È un esempio di coperta troppo corta: se vogliamo mangiare tutti in maniera sana e corretta, d’altra parte dobbiamo rinunciare a comodità come i trasporti o lo spreco di energia elettrica, o per lo meno limitarle. Ma non sembra che siamo disposti a tanto, anche per le inevitabili ripercussioni che tutto ciò avrebbe sull’economia e sull’occupazione.