Lo scorso 21 febbraio su Georgofili.info è uscito un interessante commento, a cura della Professoressa Nicoletta Ferrucci (v. https://www.georgofili.info/contenuti/risultato/29693), sulla questione che tanto ha scaldato gli animi nelle ultime settimane: la deroga alla necessità di autorizzazione paesaggistica per le aree forestali sottoposte a “doppio vincolo” rispetto al Codice dei beni culturali e del paesaggio. In seguito alla decisione del Governo, nella valanga di commenti entusiasti da un lato e di indignazione condita da fake news dall’altro, abbiamo trovato finalmente, in questo articolo, una critica pacata, seria e costruttiva sui cui a nostro avviso vale la pensa soffermarsi.
Ci occupiamo di questo tema dal punto di vista giornalistico da ormai diversi anni, a partire dal “caso” che ha portato la questione all’ordine del giorno, ovvero la vicenda mediatico-giudiziaria legata alla ceduazione di alcune leccete nel complesso del Marganai, in Sardegna. Da osservatori dell’intera vicenda sentiamo quindi la necessità di rispondere all’articolo della Professoressa Ferrucci con ulteriori considerazioni, allo scopo di far proseguire il positivo dibattito da lei innescato.
Nicoletta Ferrucci è Ordinaria di Diritto agrario presso l’Università di Firenze e il suo punto di vista sulla questione è chiaro fin dal titolo del commento: “Gutta cavat lapidem, ovvero questa autorizzazione paesaggistica non s'ha da fare”. La goccia (l’istanza di superare la necessità di autorizzazione paesaggistica per le aree a “doppio vincolo”) ha infine scavato la roccia (le amministrazioni e la politica) andando oltre la necessità, imprescindibile secondo il parere di Ferrucci, di un regime autorizzatorio differenziato “nell’ottica di una corretta presa d’atto di quel quid pluris che in termini di valori culturali i boschi vincolati ex art. 132 del Codice dei beni culturali e del paesaggio possiedono rispetto agli altri boschi”. Ferrucci si chiede come mai, con così tanta tenacia, è stata scelta una strada diversa da quella prevista dal TUFF - Testo Unico in materia di Foreste e Filiere Forestali, che prevedeva la formulazione di linee guida specifiche per la gestione di quelle peculiari tipologie di bosco.
In parte la risposta è contenuta nello stesso commento della Professoressa: “La reiterata assenza delle Linee guida ha creato una pesante situazione di impasse”. Utilizzando la stessa metafora, si può dire che la “goccia” non è stata raccolta in un contenitore dentro cui sarebbe stato possibile analizzarla, elaborarla, comprenderla e infine indirizzarla verso la direzione di una soluzione da tutti accettabile.
È fondamentale chiedersi il perché questo non sia avvenuto. Da osservatori, ci è sembrato di cogliere un’evidente non volontà, da parte soprattutto del Ministero della Cultura, di sedersi attorno ad un tavolo sul quale discutere, a pari livello con gli altri Ministeri coinvolti (Masaf in primis), di una situazione che stava degenerando sui territori, creando numerosi problemi di ordine pratico. Era chiara l’impossibilità, da parte delle Soprintendenze, nel riuscire ad istruire le pratiche; era palese anche l’assenza, all’interno delle stesse, di personale in grado di ragionare nel merito sui progetti selvicolturali. Eppure, a parte alcuni locali e lodevoli tentativi di dialogo, non c’è stata una forte volontà centrale di intraprendere la strada di “Linee guida” che, evidentemente, avrebbero tolto un po’ di potere ai funzionari del Ministero della Cultura ribilanciandolo a favore di quelli del Masaf e soprattutto delle Regioni.
Ma c’è un altro grande tema che, dal nostro punto di vista, ha contribuito a far sì che la goccia riuscisse a bucare la roccia. Per rimanere nella metafora, la goccia era ricca di sostanze fortemente abrasive, ovvero di motivazioni solide a suo supporto, mentre la roccia era forse… più di calcare che di granito.
Spieghiamoci meglio. Le istanze che da più parti chiedevano l’equiparazione della deroga alla necessità di autorizzazione paesaggistica per i “tagli colturali” anche per le aree vincolate dall’articolo 136, portavano argomentazioni molto forti e convincenti (le sostanze abrasive). Da un lato tali motivazioni erano di ordine pratico: la già sottolineata incompetenza selvicolturale delle Sovrintendenze, ma anche inutili mesi di attesa per autorizzazioni che spesso si risolvevano con un silenzio assenso, con un evidente danno, anche economico, a carico delle imprese del settore. Dall’altro lato le riflessioni poste erano di ordine più logico-filosofico. Ad esempio, appariva davvero strano dover chiedere un’autorizzazione paesaggistica per poter realizzare quegli stessi interventi che creano il paesaggio da tutti noi percepito. Non lo si fa con l’agricoltura, perché farlo con la selvicoltura? O ancora, spesso i decreti di vincolo, se letti con attenzione, appaiono estremamente generici o addirittura obsoleti, ancorati a visioni decisamente superate. Un caso su tutti, che mi è capitato di recente tra le mani: la tutela dei rimboschimenti di cedro del Libano dell’Oltrepò pavese. Nei decenni passati essi potevano rappresentare un elemento di pregio paesaggistico, ma oggi non sarebbe più auspicabile, da tanti punti di vista (anche paesaggistico!), andare verso una loro scomparsa e favorire l’insediamento delle latifoglie autoctone? Da qui una terza, grande, domanda: fino a quanto è lecito “bloccare” in una dimensione “museale” ambienti per loro stessa natura dinamici, che si modificano in base al clima (siamo nel mezzo di una crisi climatica!) e alle dinamiche socioeconomiche?
La non volontà di sedersi attorno ad un tavolo e tutte queste altre considerazioni, indubbiamente solide o quantomeno molto convincenti, hanno fatto breccia in una politica “di calcare” e non “di granito”, che preso atto delle difficoltà amministrative ha scelto, anche a seguito di forti pressioni dalla propria base elettorale, la strada più rapida. Lo ha fatto, come ha sottolineato la Professoressa Ferrucci, attraverso una norma forse non adatta a modificare il complesso Codice dei beni culturali e del paesaggio e tramite una motivazione (“rilanciare la filiera nazionale del legno”) che anche dal nostro punto di vista è parsa da subito come assai forzata (e che ha dato vita alle forti polemiche a cui abbiamo assistito).
Secondo la Professoressa Ferrucci “sarebbe stato preferibile optare per la scelta di plasmare strumenti idonei a favorire una gestione più oculata dei boschi vincolati ex lege, che dai dati tecnici non risultano certo deficitari dal punto di vista quantitativo, rispettando, attraverso il mantenimento di un regime differenziato, la valenza culturale dei boschi vincolati in via provvedimentale”. Siamo d’accordo, ma evidentemente le condizioni politiche e i delicati equilibri tra i diversi Ministeri e le Regioni non erano tali da proseguire sulla strada delle auspicate “Linee guida” già previste dal TUFF. Dove la fragile macchina amministrativa ha fallito, la politica ha mostrato (nel suo luogo principe, il Parlamento) i suoi muscoli.
La domanda finale che c’è da porsi oggi è quindi un’altra: sarebbe ancora possibile, almeno in parte, andare nella direzione auspicata dalla Professoressa Ferrucci? Evidentemente non con lo strumento delle Linee guida, ma con un altro altrettanto importante, citato dalla Circolare che il Masaf ha recentemente pubblicato per spiegare la modifica normativa (https://www.rivistasherwood.it/t/novita-e-notizie/doppio-vincolo-circolare-masaf.html). In questa circolare, a firma di Alessandra Stefani, Direttrice della Direzione generale economia montana e foreste del Masaf, si spiega che: “Resta impregiudicata la possibilità, per i Piani paesaggistici regionali, ovvero con specifici accordi di collaborazione stipulati tra le Regioni e i competenti organi territoriali del Ministero della cultura (le Sovrintendenze - n.d.r.), di concordare specifici interventi previsti ed autorizzati da eseguirsi nei boschi tutelati dall’Articolo 136 del Codice, come previsto dall’Articolo 7 comma 12 del TUFF”.
All’interno dei Piani paesaggistici o di specifici accordi è ancora possibile individuare buone pratiche gestionali per i boschi soggetti a “doppio vincolo paesaggistico”. Non solo, attraverso questo strumento è auspicabile che i decreti di vincolo siano analizzati nel concreto, alla luce delle attuali sensibilità paesaggistico-ambientali, per affrontare il tema caso per caso ed eventualmente anche per individuare nuove aree meritevoli di una particolare gestione forestale in senso paesaggistico.
Tra la goccia e la roccia, insomma, è ancora possibile posizionarsi, per affrontare il tema con buon senso e senza estremizzazioni da entrambi i lati. Lo spazio tecnico può essere quello dei Piani paesaggistici regionali. Quello politico è invece tutto da ricostruire: il nostro settore, le sue rappresentanze e il mondo scientifico avranno la volontà di affrontare il tema, come auspica la Professoressa Ferretti, o preferiranno al contrario accontentarsi di quel solco creato nella roccia?
(La pubblicazione di questo articolo fa parte di un’iniziativa condivisa con la rivista Sherwood per agevolare un confronto pacato e costruttivo sul tema del doppio vincolo paesaggistico).
Fonte: Sherwood – Foreste ed Alberi Oggi – www.rivistasherwood.it