All’interno di Palazzo Vecchio, dove si sta svolgendo il convegno internazionale «Cibo e Clima», l’atmosfera è piuttosto ovattata. Le mura sono spesse e non lasciano filtrare il brusio dei turisti e tantomeno il rumore dei trattori. D’altra parte per il momento i mezzi meccanici degli agricoltori sono lontani, stanno occupando il casello autostradale della Valdichiana e chissà magari poi muoveranno direttamente verso Roma, senza lambire la capitale del Granducato. Al convegno di oggi voluto dalle organizzazioni del biologico – Organic Cities, Associazione per l’Agricoltura Biodinamica (APAB) e Toscana Bio – gli agricoltori quindi non ci sono. Assenti giustificati? Non proprio. È impossibile parlare di biologico e soprattutto dell’obiettivo enunciato da Bruxelles nella Strategia «Dal campo alla tavola» di portare al 25% la superficie agricola coltivata a biologico in Europa (no fertilizzanti, no fitofarmaci) senza discuterne con i contadini, no? Maria Grazia Mammuccini, Presidente di Federbio, lo dice senza tanti giri di parole: da questo target dipende la riduzione del 50% di CO2 necessaria per avvicinarci alla neutralità climatica nel 2050, come previsto dal Green Deal.
Scorrono intanto sul mio cellulare le dichiarazioni degli agricoltori che guidano quella che è già stata definita la «rivolta dei trattori». «A Bruxelles ci vogliono affamare. Vogliono che smettiamo di produrre. Ci chiedono di lasciare incolti il 4% dei campi. Aumentano le regole e la burocrazia che grava sugli agricoltori, riducendo la produzione. È la fine del Made in Italy». E ancora: «con queste regole non riusciremo più a portare sui mercati prodotti a prezzi competitivi. Stiamo spalancando le porte all’importazione, che non deve sottostare ad alcun vincolo. Vogliamo competere ad armi pari. Che si importino soltanto prodotti che rispettano i nostri stessi standard ambientali». Nessun riferimento alla rotazione delle colture, importante per conservare in modo naturale la fertilità del suolo secondo l’UE.
Al convegno i relatori non usano mezze parole. Carlo Triarico, Presidente di APAB, dichiara: «gli agricoltori sono tenuti nell’ignoranza, perché a qualcuno conviene così. Ma finirà, perché è come se gli schiavi chiedessero più catene: vogliono mezzi di produzione (fertilizzanti e fitofarmaci, nda) che non controllano. Questo modello di sviluppo agricolo è giunto a un punto di non ritorno».
Si apre una nuova sessione di lavoro dedicata alle strategie europee per la sostenibilità del cibo, ma la musica non cambia. Per Peter Schmidt, Presidente della Commissione Risorse Naturali (NAT) del Comitato Economico e Sociale Europeo, «4 multinazionali controllano il cibo nel mondo, dove va e a che prezzo». Occorre quindi tornare a produrre cibo in Europa secondo criteri di sostenibilità. Livia Pomodoro, cattedra Unesco all’Università Statale di Milano lo aveva detto poco prima usando altri termini: la nuova agricoltura ha bisogno «di pensiero sistemico e di integrazione» tra tutti gli attori della filiera. Rossella Bartolozzi, Presidente di Toscana Bio e socia di Probios SpA, vi ha incluso i consumatori: «occorre consapevolezza, per esempio degli effetti che gli allevamenti intensivi (di animali e pesci) hanno sull’ambiente e sulla salute umana, e poi volontà di cambiare, a partire dalle scelte individuali». Risuonano nella memoria le parole di Wendel Berry, «mangiare è un atto agricolo».
Ma gli agricoltori cosa pensano? Non si sa. O forse si sa o almeno ce lo possiamo immaginare: che tutto lo sforzo per ridurre le emissioni ricade su di loro, che già non ce la fanno oggi ad assicurarsi un reddito dignitoso lavorando la terra. Considerata l’emorragia persistente nel numero di imprenditori agricoli e la loro età sempre più avanzata, domani potrebbero non esserci più a presidiare il territorio, a prendersi cura dell’ambiente, ad assicurare i rifornimenti necessari alla trasformazione dei nostri alimenti di eccellenza.
Certo questa PAC così come la Strategia «Dal campo alla tavola» hanno alcuni punti deboli. Entrambe scommettono sul successo di un approccio «volontaristico» alla sostenibilità che indirizza una quota significativa degli aiuti agli agricoltori (30% del bilancio comunitario a favore di un comparto che genera l’1,3% del PIL) proprio alla transizione ecologica, dando per scontata la disponibilità dei consumatori a pagare un sovrapprezzo per gli alimenti più sostenibili. Un’altra lettura possibile di quanto sta avvenendo ci dice però che, poiché la quota del bilancio europeo destinata al sostegno dell’agricoltura è rimasta sostanzialmente invariata, da ora in poi fare agricoltura «convenzionale» costerà di più (minori sussidi rispetto al passato) mentre produrre «biologico» costerà relativamente di meno (più sussidi) ma con rese e raccolti calanti. I risultati potrebbero essere meno prodotti e prezzi più alti degli alimenti sugli scaffali: quindi è concreto il rischio che i consumatori si orientino verso prodotti alimentari a basso costo, importati da Paesi che dedicano minore attenzione all’ambiente. Un articolo scientifico in corso di pubblicazione sulla rivista Agricultural Economics solleva in effetti qualche dubbio sul fatto che gli individui siano disposti a pagare di più per un prodotto che contribuisce a un bene pubblico ancora piuttosto indefinito (la tutela dell’ambiente) sin tanto che possono contare (free-ride) sull’acquisto di alimenti sostenibili da parte di altri.
Insomma «grande è la confusione sotto il cielo», avrebbe detto Mao (eccellente situazione per alcuni, pessima per altri). E la sensazione che nel mondo dopo una guerra per il controllo della terra (colonialismo), dei mari (imperialismo), della finanza (vinta dagli Stati Uniti), stia per cominciare una guerra per il cibo si fa sempre più concreta.