Se si consultano attentamente tanti manuali tecnici e disciplinari di produzione integrata sulle principali colture agrarie è facile rendersi conto che molti di essi sono stati redatti, giustamente, per migliorare la quantità e la qualità delle produzioni agricole in un contesto di rinnovato interesse per l’ambiente.
Molte leggi e regolamenti e, persino, molti contributi pubblici, vengono “pensati” su questi concetti che, in definitiva, rappresentano corretti modelli di riferimento per un’agricoltura produttiva moderna, redditizia e sostenibile.
Continuando a ragionare in tal senso, però, ci si accorge, dopo un po’ di tempo, delle difficoltà di gestire in campo alcune problematiche (es. fitosanitarie) che, in linea teorica, dovrebbero, invece, essere di facile risoluzione per tecnici e agricoltori professionisti di lunga esperienza.
Tutto questo è una logica conseguenza di un naturale principio della natura, che può essere così espresso: “Non si comanda alla natura se non assecondandola” (Francesco Bacone).
Cosa significa ciò?
“Semplicemente che si può ottenere di più, e meglio, da un agroecosistema rispettandone il funzionamento, piuttosto che operando una forzatura che porti a una deformazione dell’ecosistema stesso”.
Esplicitato in questi termini, il discorso potrebbe sembrare un “elegante” pensiero filosofico, anziché un chiaro concetto di natura biologica.
Basta, però, fare un giro attento in molte aziende agricole per rendersi conto che uno dei maggiori problemi moderni di tanti campi coltivati (e di tanti agricoltori e tecnici) non è quello dei funghi o degli insetti o della concimazione o della potatura o delle basse produzioni, ma l’eccessiva vigoria delle piante, ossia una mancanza di EQUILIBRIO degli agroecosistemi.
Tutto questo comporta, di conseguenza, variabilità far le piante (più stadi fenologici e diversi livelli di capacità vegetativa) con difficoltà di gestione (meno precisa ed efficace) e maggiore sensibilità a stress abiotici e a malattie, oltre che elevata richiesta energetica dei sistemi.
In definitiva, l’equilibrio è benessere, benessere è salute, salute è qualità e tipicità.
È necessario allora chiedersi quali possono essere le cause di un’eccessiva vigoria di un sistema complesso di piante in coltivazione, che conducono poi a una situazione di squilibrio e instabilità.
Queste sono note da tempo, anche se scarsamente prese in considerazione dagli addetti ai lavori.
Si tratta di scassi troppo invasivi, sesti di impianto troppo larghi, portinnesti vigorosi, cloni non adatti, potature troppo ricche, lavorazioni eccessive del terreno, concimazioni squilibrate (in particolare uso eccessivo di biostimolanti), irrigazioni irrazionali, gestione delle chiome non corrette, difesa “a calendario”, diserbi irrazionali, ecc.
Sembra strano ma, come è ben evidente, si tratta di tutte quelle operazioni ritenute “normali” e che vengono eseguite con il buon “proposito” di migliorare lo stato di salute delle piante coltivate e che, invece, possono provocare indesiderati effetti “collaterali”.
Come può accadere ciò?
Quando, volutamente, tutte queste attività vengono condotte male e considerate, in modo errato, indipendenti l’una dall’altra, il sistema non è più in equilibrio ed è difficile prevedere le possibili conseguenze, in particolar modo quando viene superato il limite di resilienza.
Anche se non rientra nella definizione classica di stress, il perdurare di uno squilibrio vegetativo è da intendersi, a tutti gli effetti, uno stress per le piante che, quando si prolunga nel tempo, può portare a disastrosi esiti economico-ambientali.
Cosa fare allora?
É necessario “indurre” negli agroecosistemi processi spontanei di autocontrollo e autoregolazione che diano stabilità e resilienza sulla base di interventi preventivi fatti in modo differenziato.
Secondo i principi della natura, anche nei sistemi agricoli ogni cosa richiede il suo tempo per trovare il proprio equilibrio. La natura è un sistema complesso e dinamico in continua evoluzione; lo è sempre stato e lo sarà sempre. L’agricoltura moderna, invece, è troppo sicura di sé, ossessionata dall’idea di applicare metodi e mezzi sicuramente risolutivi ed “esatti”, ma in disaccordo con le leggi e i tempi della natura, e per questo alla lunga possono non funzionare creando squilibri (R. Mazzilli).
Dobbiamo disfarci dell’approccio convenzionale ai problemi dell’agricoltura basato su singole operazioni colturali separate. Anziché suddividere l’argomento e studiare l’agricoltura pezzo per pezzo con i metodi analitici della scienza, che si prestano solo alla scoperta di nuovi fatti, occorre adottare un criterio sintetico e considerare il campo coltivato come un unico grande soggetto e non come un mosaico di tessere non collegate (A. Howard).
Gestire la vigoria in un appezzamento è un “arte” che richiede conoscenze, precisione, tempestività in ogni intervento colturale, ma, soprattutto, esperienza e serietà professionale.
Le conseguenze positive, per il singolo e per l’intera collettività, non tarderanno ad arrivare.