“Se qualcosa può andare storto, sicuramente ci andrà”. La legge di Murphy può essere la sintesi (in)felice di questo 2023 che si è appena chiuso. L’ortofrutta italiana archivia un anno nero e fa un disperato ricorso all’ottimismo della volontà per guardare all’anno che viene.
Nell’ultimo giornale dell’anno abbiamo fatto un piccolo sondaggio fra alcuni numeri 1 del sistema ortofrutta Italia per chiedere un bilancio e un auspicio. Il bilancio – inutile dirlo – è negativo. Più interessanti sono gli auspici. C’è chi chiede “nuovi strumenti, finanziari e non, per evitare che il 2024 veda un ulteriore peggioramento in termini produttivi e competitivi del nostro settore ortofrutticolo fresco. Ad iniziare da un nuovo modello di assicurazione del rischio climatico”. Chi dice che c’è “in gioco la sopravvivenza dell’intero sistema” chiedendo che i costi della transizione green non siano messi solo a carico dei produttori e dei consumatori. Chi lamenta la tenaglia aumento dei costi-calo produttivo-crollo dei consumi. Tutti confidano nel PNRR e nel supporto del Governo, auspicando che dall’Europa non vengano ulteriori batoste e magari in Italia prenda forma quel Piano strategico nazionale senza il quale parlare di ‘sovranità alimentare’ è un vuoto esercizio di retorica. E chi dice che al netto di gelate, grandinate, insetti e fitopatie spetta al mondo produttivo impegnarsi di più per affrontare le tante priorità sul tavolo: promozione consumi, nuovi mercati, più innovazione e ricerca e maggiori sinergie con le Università, razionalizzazione ed efficientamento delle strutture, rapporti più equilibrati con la GDO. Come diceva un grande americano: prima di chiederti cosa il Governo può fare per te, vedi cosa può fare tu per il tuo paese. Bella frase, che chiama in campo il tema della rappresentanza, mai così divisa in campo agricolo generale e nell’ortofrutta in specifico. Sul settore si scaricano tutte le contraddizioni di un mondo agricolo sempre più impegnato in bracci di ferro e dove anche i timidi tentativi di ‘fare sistema’ (Agrinsieme, ACI) si stanno spegnendo. Va bene così? Vuol dire che va bene così. Noto solo a margine che il mondo bio (che finora ‘ballava (abbastanza) da solo’) sta per entrare nell’orbita dell’arena dei sindacati agricoli con la scalata di Coldiretti a Federbio e l’ingresso di BF-Bonifiche Ferraresi nella catena NaturaSì.
C’è una tendenza in atto: i gruppi più strutturati resistono e magari attirano anche finanza e investimenti dall’esterno. Consorzi e grandi gruppi cooperativi resistono a fatica con bilanci in pareggio o margini sempre più esigui. Nella tenaglia tra aumento dei costi e cali produttivi restano schiacciate le imprese private che sono quelle che più soffrono, tentate dal fare cassa e vendere tutto. Per la Fruit Valley è davvero l’anno zero. In questo è difficile contrastare l’abbandono di colture simbolo del made in Italy come pere e pesche, mentre per il kiwi si fa sempre più ricorso all’import dall’estero. Il nostro ruolo storico di paese esportatore si sta ridimensionando e stiamo diventando strutturalmente un paese importatore netto. L’Italia conferma anche qui il suo ruolo tradizionale di paese in cronico deficit agroalimentare e non illudiamoci che il trend possa invertirsi. I nuovi mercati si aprono col contagocce e paghiamo l’inerzia della politica e delle istituzioni che in questi anni non hanno aiutato il mondo produttivo a crescere all’estero.
Davvero il sistema Italia dell’ortofrutta è con le spalle al muro. Ce la faremo perché alla fine della giostra siamo bravi, creativi, innovativi soprattutto quando abbiamo esaurito tutte le risorse. Ma il panorama produttivo del settore è destinato ad un radicale cambiamento e sul campo resteranno tanti morti e feriti.
*Direttore del Corriere Ortofrutticolo