Con un evento al ministero, Alleanza Cooperative Agroalimentari è riuscita a portare all’attenzione dell’opinione pubblica il disastro-pere di quest’anno (non che gli anni passati fosse andata molto meglio).
Nel sito CorriereOrtofrutticolo.it potete leggere un intervento molto lucido di un grande imprenditore agricolo e frutticoltore, Albano Bergami, sul disastro della Fruit Valley emiliano romagnola che sta scomparendo nel disinteresse generale. Il mondo produttivo chiede (giustamente) ristori. Il governo, bisogna dargliene atto, è intervenuto subito con 10 milioni di euro per la filiera pere, 2 milioni di euro per il kiwi, 9,4 milioni per gli agrumi e 20 milioni di prestiti cambiari in manovra a sostegno di tutto il settore. Ovviamente non bastano, in particolare per le pere. Perché secondo stime di ACI l’indennizzo per ogni produttore sarebbe meno di 1.000 euro per ettaro, una cifra che non coprirebbe neanche il forte incremento dei costi di produzione, che quest’anno è stato di circa 5.000 euro per ettaro. Oggi coltivare un ettaro di pero costa più di 20mila euro, dice ACI. Servono quindi nuovi interventi nel 2024. Quanti ne arriveranno? Altri 10, 20, 50 milioni? Vedremo, comunque i margini in manovra sono strettissimi. Certo una cosa si può dire: nulla sarà come prima per la pericoltura emiliano-romagnola; quindi, è bene adeguarsi fin da subito, come per il resto delle produzioni tradizionali, falcidiate da clima avverso, fitopatie, alluvioni e quotazioni umilianti. Il futuro – non c’è dubbio - sarà l’innovazione varietale e nuovi materiali più resistenti alle avversità climatiche, agli insetti e alle calamità varie (siccità ecc). Intanto, primum vivere. Quindi uscire vivi da questa annata-disastro, anche se tante imprese con poca liquidità ridurranno o azzereranno gli investimenti nelle pere.
Ma, allargando il discorso, bisogna fare una riflessione seria sulla perdita di competitività complessiva della nostra ortofrutta. Hanno fatto scalpore i dati dell’export su cui anche noi come Corriere abbiamo fatto chiarezza grazie alla collaborazione di Ismea.
Per quanto riguarda la frutta fresca (2022 sul 2003) in un ventennio l’Italia è precipitata dal podio di terzo esportatore mondiale (dopo Stati Uniti e Spagna) al dodicesimo, preceduta da una sfilza di paesi. Una scivolata pesante perché siamo stati superati da paesi come Thailandia e Vietnam che una volta nel commercio globale della frutta non esistevano. D’altronde anche gli ultimi dati Fruitimprese su export/import confermano che l’Italia si avvia a diventare strutturalmente un importatore netto di ortofrutta. Per quanto riguarda l’export di ortaggi l’Italia ha tenuto le posizioni tra il 2003 e il 2022: era al nono posto 20 anni fa e si ritrova al decimo nel 2022 preceduta da Cina, Messico, Olanda, Spagna, Canada, Usa, Francia, Belgio e Turchia. L’Italia ha poco più che raddoppiato l’export di ortaggi, da 845 milioni € a 1,9 miliardi. Se parliamo di ortofrutta (frutta+ortaggi) è credibile lo slittamento del nostro paese in 20 anni dal dodicesimo al sedicesimo posto, o forse anche più giù. Come si vede, i dati, i numeri parlano da soli. E sono impietosi.
Si può discutere se questo gap, questa perdita di competitività sia rimediabile. Parzialmente forse sì, completamente no, è il mio modesto parere. Il comparto fa troppa fatica a farsi ascoltare nelle sedi istituzionali decisive e competenti. La rappresentanza è frantumata, divisa. Dietro la rappresentanza di settore c’è il mondo delle professionali agricole e delle Unioni di OP, anch’esso diviso e in aperta concorrenza. Tutti parlano di aggregazione, ma sembra solo uno slogan. Ci sono ancora troppe poltrone attorno al Tavolo nazionale. Il settore fa fatica ad entrare nelle cabine di regia dell’export e se tutti i politici corrono in soccorso del vino, l’ortofrutta non scalda allo stesso modo il cuore dei decisori. Al Tavolo nazionale i dossier aperti sono sempre gli stessi: il catasto, la campagna di comunicazione per spingere i consumi (che è ancora un oggetto misterioso), mentre il biologico ad esempio ha già in corso una (piccola) campagna di promozione (800 milioni investiti). E i dossier sui nuovi mercati da aprire avanzano troppo lentamente (rispetto all’aggressività dei nostri competitor).
Per rifare l’immagine dell’ortofrutta servirebbe comunicare valori non solo salutistici ma anche economici (fa sorridere Oscar Farinetti che ad un evento bolognese scopre che l’ortofrutta “fa bene alla salute”). Dei valori salutistici si appropriano le industrie del food. Quelli economici mancano. Sì perché mentre l’agroalimentare ha dovizia di dati/ricerche/indagini , l’agricoltura è meno ‘indagata’ e i dati non combaciano quasi mai perché vengono strattonati e piegati a questa o quella tesi. Nella comunicazione dell’agricoltura (intesa come produzione di materie prime per il food, e l’ortofrutta fresca è tale) vale l’inverso del motto di un celebre giornalista: non “i fatti separati dalle opinioni” ma “le opinioni che prevalgono sui fatti” cioè sui numeri. E l’ortofrutta è terribilmente carente di numeri, di statistiche, di confronti: quanto vale il comparto regione per regione, quanta ricchezza crea, quanta occupazione impiega, quanto export produce, quanto indotto alimenta, quanto di questo o quel prodotto si è spostato dal nord al sud? E la logistica come funziona? Quanto costa e quanto valore sottrae al comparto? Anche questa è comunicazione, buona comunicazione, per far capire il valore, il peso del comparto sul piano socio-economico. Ma le indagini costano, fare comunicazione costa…
*direttore Corriere Ortofrutticolo e CorriereOrtofrutticolo.it