Con un ritardo di un giorno (e una notte) sui tempi previsti si è chiusa la sessione della ventottesima Conferenza sui cambiamenti climatici, Cop 28, per consentire un accordo alla venticinquesima ora. La Conferenza ha avuto la solita attenzione dei mezzi di informazione, intensa, ma distratta, spenta prima ancora che le sessioni si chiudessero e che il consenso unanime fosse espresso. I punti in discussione riguardavano il bilancio dell’attuazione del contenuto delle precedenti sessioni, definito “Global Stocktake (GST)” previsto dall'Accordo della Cop 21 di Parigi del 2015, e le decisioni da prendere sul futuro della lotta al cambiamento climatico. Il contesto in cui si muove tutto il mondo, inclusa la questione della transizione climatica, è molto mutato sotto diversi punti di vista, economico, geopolitico, sociale, ambientale con eventi climatici avversi sempre più numerosi ed intensi: la pandemia più rilevante dei tempi moderni, due guerre locali di dimensioni ed implicazioni anch’esse senza precedenti, un’ondata inflazionistica (forse) relativamente breve, ma violentissima, un peggioramento economico serio di vaste aree del pianeta in termini di sottoalimentazione. Dopo anni di costanti miglioramenti che avevano ridotto il numero dei sottonutriti a 650 milioni circa, infatti, questi sono risaliti a 732 milioni, su una popolazione mondiale giunta a 8 miliardi di persone.
Pensare al mantenimento degli indirizzi precedenti e delle relative tabelle di marcia sembra effettivamente ambizioso. Tanto più se si considera che doveva essere decisa la questione più importante: la decarbonizzazione delle fonti energetiche a breve scadenza. Gli obiettivi della Cop 28 erano legati alla riduzione del 43% delle emissioni entro il 2030 con un incremento del riscaldamento globale fermato sotto al 2% e, possibilmente, sotto l’1,5%.
Il dibattito, come si ricorderà, è iniziato nella seduta d’apertura con le affermazioni del Presidente, Sultan Al-Jaber che, molto realisticamente, di fronte ai problemi della “eliminazione totale” dei combustibili fossili (phase out) ha introdotto maggior cautela. Nell’accordo finale è diventata “allontanamento” (transitioning away) e per il carbone riduzione graduale o semplice “abbattimento” (phase down).
Il testo finale, 21 pagine di dati, considerazioni e nuovi obiettivi, appare ragionevole sulla maggior parte delle questioni, inclusa la più spinosa il finanziamento da assicurare ai Paesi a basso reddito per favorirne l’adattamento. Per essi si prevede un contributo totale a riparazione di danni e perdite stimato in 4,3 miliardi di $, ma al presente può contare solo su circa 650 milioni. Le questioni aperte vengono rinviate alla Cop 29 che si terrà l’anno prossimo a Baku in Azerbaigian, altro Paese produttore di petrolio e gas, tra l’altro importante fornitore dell’Italia.
Il settore agricolo viene affrontato in numerosi passaggi del documento finale, in particolare nella parte introduttiva in cui “si riconoscono la priorità fondamentale di salvaguardare la sicurezza alimentare e di porre fine alla fame nonché le particolari vulnerabilità dei sistemi di produzione alimentare agli impatti avversi del cambiamento climatico” e “ il ruolo cruciale di protezione, conservazione e ripristino dei sistemi idrici e degli ecosistemi correlati all’acqua nel fornire benefici e co-benefici di adattamento climatico, assicurando nel contempo garanzie sociali ed ambientali”. Considerazioni da estendere a tutti “gli ecosistemi, inclusi foreste, oceano, montagne e criosfera”.
La parte principale delle questioni riguardanti l’agricoltura viene poi ripresa nelle azioni di adattamento, “Adaptations”, al punto 55 in cui il documento “Incoraggia l’attuazione di soluzioni integrate e multisettoriali, come la gestione dell’uso del suolo, l’agricoltura sostenibile, sistemi alimentari resilienti, soluzioni basate sulla natura e approcci basati sugli ecosistemi e la protezione, conservazione e ripristino della natura e degli ecosistemi, comprese foreste, montagne e altri ecosistemi terrestri, e marini e costieri. Queste azioni possono offrire benefici economici, sociali e ambientali, come una maggiore resilienza e benessere e si sostiene che l’adattamento possa contribuire a mitigare impatti e perdite”. Lo stesso paragrafo prosegue con una considerazione molto interessante perché indica che tutto quanto sopra detto dovrebbe essere parte di un approccio guidato dal singolo Paese, sensibile al genere e partecipativo, nonché basato sulla migliore conoscenza scientifica disponibile, il tutto finalizzato a conseguire una produzione e distribuzione del cibo resiliente al clima nonché ad aumentare una produzione sostenibile e rigenerativa e l’accesso al cibo equo con una nutrizione adeguata per tutti.
Anche nei punti riguardanti le parti seguenti del documento i temi connessi all’agricoltura ed alla produzione di cibo ritornano spesso, in particolare per quanto concerne gli aspetti finanziari, lo sviluppo tecnologico (auspicato) e il relativo trasferimento delle tecnologie, ma anche la questione delle perdite e dei danni provocati dalla fase di transizione, le “response measures”, la cooperazione internazionale, i rapporti con la comunità scientifica.
Il documento appare bene impostato ed apre la speranza alla possibilità che la complessa e costosa operazione della transizione climatica, possa essere progettata, realizzata e portata a conclusione in termini molto più ragionevoli di quelli che i soliti laudatores sembrano voler accreditare. Però una lettura, seppure sommaria, della grande stampa non apre spazi all’ottimismo.
Alcuni aspetti, se conservati e rispettati, sono invece positivi e possono aprire la via a soluzioni realistiche: l’affidare il futuro dell’agricoltura alla scienza ed allo sviluppo tecnologico, la dichiarazione sulla volontarietà degli Stati nel realizzare la transizione, il richiamo ai rapporti con la comunità scientifica, il rispetto delle diverse forme di agricoltura. soluzioni e metodi percorribili, adattabili alle esigenze dei singoli Paesi e rispettose delle diverse realtà. Il problema, una volta di più si sposta al livello dell’applicazione dei criteri enunciati e, apparentemente, rafforzati.
Il punto centrale, inderogabile, è il fatto che l’agricoltura deve poter sostenere lo sviluppo dei consumi umani a livelli adeguati e che quindi la soluzione non è, non può essere, la riduzione dell’output agricolo con una rinaturalizzazione forzata ed arbitraria, quanto invece l’adozione delle più avanzate pratiche agricole con una piena sostenibilità dei processi. L’ ambiente non ha che da guadagnarne. Ciò implica uno stretto coordinamento fra politiche agrarie e gestione del territorio. Anche i disastri ambientali provocati dagli eventi meteo degli scorsi mesi hanno colpito meno dove la regimazione delle acque ha funzionato. In questa luce Le conseguenze di questi eventi non possono far passare per vera l’illusione che se non ci fossero opere di contenimento e regolazione delle acque o delle pendici franose anche i disastri provocati dalle intemperanze del clima sarebbero stati minori. Lasciando al momento da parte le forzature, che nel testo non compaiono, del fatto che l’agricoltura sarebbe la maggior responsabile del consumo di acqua e della produzione di emissioni gassose fortissime e le contro valutazioni della scienza che conosce il modo di produzione agricolo e ne comprende le logiche, questo è il punto, col problema dell’alimentazione dell’umanità da risolvere.
Occorre prendersi cura del territorio, in particolare nel caso italiano, rafforzandone la tenuta e la capacità di recupero. Le grandi opere, a volte più che millenarie, hanno permesso lo sviluppo e la crescita del Paese. Hanno salvato vite umane, agricoltura e ambiente. Prendiamone atto e consideriamo che solamente così possiamo affrontare eventi e fenomeni che hanno tempi e modalità d’azione che vanno ben al di là della nostra percezione temporale secondo la quale, spesso ragioniamo.
Il documento finale integrale è disponibile QUI