Ad Aisha, una donna del Niger, paese di povertà e fame – come racconta Martin Caparròs nel libro La Fame (Einaudi, 2016) – é chiesto cosa vorrebbe avere e questa risponde: “Una vacca. Anzi due vacche: con una ci sfameremmo noi, con l’altra produrrei cose da vendere e non avrei fame mai più”. Una risposta a prima vista stupefacente perché spesso le vacche, come altri ruminanti, sono accusate di essere animali inquinanti, con produzioni di carne e latte tra le meno efficienti e il loro allevamento ruba cibo all’uomo divenendo una delle cause della fame mondiale.
Chi ha ragione? La donna del Niger che vuole due vacche per combattere la sua fame o gli ambientalisti ed ecologisti dei paesi industrializzati che accusano l’allevamento bovino della fame del mondo?
Le vacche sono ruminanti e tra le specie tra le più numerose (circa cen-tosettanta) sulle circa cinquemila specie di mammiferi, e diffusi in ogni am-biente. Ruminanti di grande e piccola taglia sono state addomesticati da tutte le culture antiche e soprattutto dalle popolazioni più povere, divenendo de-terminati la loro sussistenza. Animali che ruminano sono le renne delle tundre del più freddo e desolato settentrione come i cammelli e i dromedari dei deserti assolati e aridi, le pecore e le capre dei magri pascoli alpini e le bufale delle pianure acquitrinose e delle risaie asiatiche, i bovini da lavoro del vec-chio mondo, i lama, alpaca, vigogna e guanaco degli alti pianori delle Ande del Nuovo Mondo e i bisonti che davano cibo agli indiani delle pianure ame-ricane.
In tutto il mondo, i bovini domestici sono un milione e trecentomila, due miliardi e settecentomila gli ovini e caprini, senza contare i bufali, i camelidi e le renne. Circa un quarto della superficie terrestre é occupato, direttamente o indirettamente, da bovini che producono latte e carne, con una superficie che riguarda per il 43% l’America, il 17% l’Europa occidentale e per il 18% la Russia.
Il successo dei ruminanti risiede nel fatto che questi animali possono nutrirsi di quello che l’uomo non può mangiare e quindi non sono competiti-vi, ma complementari alla società umana. Questi animali non si nutrono di ciò che mangiano, ma di quanto prodotto dalle fermentazioni microbiche che si compiono nei loro prestomaci, dove in un ambiente anaerobio vive una straordinaria popolazione di batteri, miceti e protozoi. Per questo, a metà del secolo ventesimo, il Premio Nobel finlandese Artturi Virtanen ha mantenuto tre generazioni di mucche, con una produzione di una decina di litri di latte, alimentandole esclusivamente con la carta di elenchi telefonici, urea e sali minerali, un’alimentazione assolutamente non competitiva con quella umana o di animali non ruminanti. Una condizione di cui, sia pure inconsciamente, si sono rese conto le popolazioni antiche quando hanno addomesticato i ru-minanti e che ancor oggi é nota alle donne del Niger, come Aisha.
Un altro elemento del successo dei ruminanti risiede nel loro differente modo di alimentarsi, che permette un completo utilizzo del territorio. Nei climi temperati i bovini per primi si nutrono falciando con la lingua le erbe delle praterie o dei pascoli senza arrivare raso terra, poi arrivano le pecore che brucano quanto ancora spunta dal terreno, mentre le capre si alimentano con le foglie e i virgulti trascurati dai precedenti animali. Nei climi freddi, le renne mangiano prevalentemente i licheni, foglie e funghi, mentre nei climi caldi e aridi i camelidi si alimentano di arbusti secchi, piante coriacee e salate immangiabili per altri animali.
Per queste caratteristiche anche i romani giudicavano l’allevamento dei ruminanti al pascolo, pascere, il sistema più redditizio d’utilizzo di un territo-rio, ben più dell’agricoltura. É Marco Tullio Cicerone che riferisce come Ca-tone il Vecchio, quando gli é chiesto quale sia il miglior modo di amministrare i beni familiari, risponde “bene pascere”, per mettere in seconda posizione il pascolare abbastanza bene e in terza il cattivo pascolare, ponendo solo in quarta e ultima posizione di redditività l’“arare” e cioè coltivare la terra.
Un giudizio analogo a quello di Cicerone e Catone é quello della donna del Niger e ci invita a considerare l’importanza di questi animali, a riconoscere la loro compatibilità con le società umane e a riconoscere che molte delle critiche alle quali sono soggetti non dipendono dai ruminanti, ma da errate o improprie condizioni di allevamento e di sfruttamento di questi animali.
Sustainable ruminants
As Martin Caparròs recounts in his book about poverty and hunger La Fame (Einaudi, 2016), Aisha, a woman from the poor and hunger-stricken country of Niger, who was asked what she would like to have, answered, “a cow. Better still, two cows. We could feed ourselves with one, I could produce things to sell with the other, and I’d never be hungry again.” At first, it may seem a startling answer as cows, like other ruminants, are often accused of being polluting animals, with meat and milk production among the least efficient and that their breeding takes food away from people, thus making it one of the causes of the world hunger.
Who is right? The woman from Niger who wants two cows to fight her hunger or the environ-mentalists and ecologists from industrialized countries that accuse cattle farming of being the cause of world hunger?