Il 14 novembre u.s. si è svolto a Firenze il Forum Mondiale sulle frane. Oltre 1100 i partecipanti da 69 paesi, con un programma di lavoro intenso focalizzato su come ridurre il rischio di frana a livello globale attraverso il monitoraggio e l’allerta rapida, la modellizzazione, la valutazione del rischio e le tecniche di mitigazione, lo studio della relazione con i cambiamenti climatici.
Le catastrofi recenti da quella dell’Emilia Romagna del maggio scorso a quella del 2-3 novembre in gran parte della Toscana accentuano, senza dubbio, l’importanza di questa assise; da un punto di vista pedologico ci preme sottolineare che la gran parte dei movimenti di massa verificatisi in queste catastrofi, come del resto in quella della Versilia del 1996, di Sarno del 1998, di Giampilieri 2009, della Lunigiana 2011, delle Marche 2022, di Ischia 2022, tanto per citare le più eclatanti, hanno riguardato esclusivamente il suolo. Certo c’è stato anche qualche movimento franoso che ha interessato anche la roccia sottostante ma la maggior parte dei movimenti di massa ha riguardato il suolo, che è stato trasportato a valle dal movimento turbolento delle acque, ricoprendo la pianura di quella coltre di fango che ha provocato le catastrofi. Il suolo infatti non è solamente lo strato superficiale interessato dalle lavorazioni agricole ma, come recita la definizione ufficiale europea, comprende tutto lo spessore della parte più esterna della crosta terrestre, situato tra la roccia o il sedimento inalterato e l’atmosfera. Tale spessore non è affatto omogeneo e si differenzia in orizzonti o strati con caratteristiche anche molto diverse tra loro e i cui passaggi tra loro possono essere abrupti. A seconda della natura degli orizzonti, si possono avere caratteristiche idrologiche completamente diverse, ad esempio, orizzonti che assorbono bene l’acqua posti sopra altri che invece ne rallentano o impediscono il drenaggio in profondità e favoriscono i movimenti idrici sub orizzontali. In questi casi vi è un rischio molto elevato di frana, che si accentua quando i limiti tra gli orizzonti sono netti. Rischio che si accentua ulteriormente nei terreni in pendio.
La catastrofe di Sarno del 1998 fu provocata da una gestione del territorio che ignorava le più elementari qualità di quel tipo di suolo, un suolo vulcanico con la capacità di assorbire acqua fino a quattro volte il proprio peso, perdendo quindi totalmente la sua consistenza quando si è in presenza di un eccesso di acqua che le piogge incessanti dell’epoca provocarono. A questo si aggiunse l’abbandono delle opere di regimazione idrica realizzate dai Borboni, i “regi lagni” e una non corretta gestione del territorio come la realizzazione di strade forestali nei castagneti.
A Giampilieri (2009) e Ischia (2022) la causa del disastro è da ricercarsi nell’abbandono dei terrazzamenti dove prima vi era una fiorente agricoltura.
Le recenti alluvioni da quella delle Marche, all’Emilia Romagna, alla Toscana di qualche giorno fa hanno una matrice comune che va dall’abbandono delle aree marginali montane a cominciare dagli anni Sessanta del secolo scorso e quindi dell’abbandono della cura e manutenzione del territorio e soprattutto l’abbandono della regimazione delle acque fin dall’origine del reticolo idrico, alla cementificazione selvaggia dalla bassa collina alla pianura.
Vi è una certa polemica riguardante il ruolo operato dalla copertura erbacea ed arborea sul rischio di frana. La relazione tra suolo e vegetazione è certamente complessa e non può essere semplificata. A Sarno ad esempio il castagneto opera un’azione importante di mitigazione del rischio, tanto che i Borboni prevedevano la pena di morte per i tagli non autorizzati. La loro osservazione empirica è stata di recente suffragata dalle ricerche che hanno dimostrato come l’azione più importante del castagneto sia da attribuire al fitto reticolo radicale che avvolge e trattiene quei suoli fino in profondità. Ed è per questo motivo che molti inneschi di frana si sono verificati proprio dove erano state aperte nuove strade forestali.
In altre situazioni invece, ad esempio in occasione del disastro avvenuto in Versilia nel giugno 1996, la presenza di boschi invecchiati, ormai non più governati da molti anni, con un importante accumulo di necromassa e la presenza di numerose piante crollate e ceppaie rivoltate, ha appesantito ed indebolito la stabilità dei versanti, e ostacolato il deflusso nei corsi d’acqua.
La presenza di un bosco non è quindi sempre garanzia di riduzione del rischio di frana. Infatti a Giampilieri, come in tutto il messinese, gli studi hanno consigliato la Regione Siciliana a favorire l’impianto di idonee piante arbustive, anziché arboree, perché più leggere, più facili a diffondersi e a crescere velocemente e più resistenti alla siccità.
In definitiva quindi si può dire che la copertura vegetale del suolo andrebbe sempre opportunamente dimensionata in funzione delle caratteristiche ambientali, in particolare fisico-idrologiche del suolo, ma anche adeguatamente gestita. Un aspetto legato alla gestione del suolo e spesso poco considerato è il compattamento, che è più spesso presente nei suoli agricoli, ma che può raggiungere valori allarmanti anche in quelli forestali, a causa della diffusione anche in selvicoltura di macchinari sempre più pesanti per il taglio della foresta e l’esbosco del legname. Più il suolo è compattato, più è impermeabile e minori sono i tempi di corrivazione, di conseguenza le piene sono più subitanee e con portate idriche maggiori. I suoli non costipati invece sono in grado di accettare piogge di maggiore quantità e intensità. Poter contare su tempi anche di qualche ora più lunghi prima di un’ondata di piena potrebbe significare la possibilità di avvertire in tempo le popolazioni del pericolo imminente e poter salvare vite umane!