Nello stato di sovraeccitazione mediatica per le nostre eccellenze e i nostri primati nel food, ci siamo scordati di quello che era l’abc per uno studente al primo anno di Economia, cioè che l’Italia è un paese in cronico deficit agroalimentare. Carenti di materie prime (per ragioni storiche, di superfici, di frammentazione produttiva e di confusione amministrativo-istituzionale) siamo un paese grande trasformatore, e sulla trasformazione siamo maestri. E sui prodotti trasformati abbiamo costruito la crescita graduale del nostro export nel mondo, non certamente sulle materie prime agricole. Quindi spulciando il rapporto Crea sul nostro commercio estero nel 2022 leggiamo di grande crescita per pasta (+38% in valore), conserve di pomodoro (+28%), e anche olio d’oliva, caffè torrefatto. Cresce il vino, che è pur esso un prodotto trasformato dalla materia prima agricola, che è l’uva.
Poi arriviamo ai dati macro del 2022 e leggiamo: export 60 miliardi di euro circa, import 63 miliardi, uno sbilancio di 3 miliardi. Più del doppio è lo sbilancio delle materie prime agricole. Quindi si conferma il cronico deficit agroalimentare di cui sopra. Tutto questo per dire cosa? Che l’ortofrutta fresca, seconda voce dietro al vino del nostro export, non sfugge al suo destino di materia prima agricola: facciamo tanto export ma anche tanto import, anzi le quantità importate sono ormai stabilmente superiori a quelle importate, stiamo diventando in sintesi importatori netti di ortofrutta fresca, pur essendo i primi (o i secondi) produttori in Europa (primato che vale un piffero, quello che conta è il valore).
Quindi: lo sbilancio export-import dell’ortofrutta nei primi 7 mesi del 2023 è - 351.000 tonnellate; lo sbilancio dell’anno 2022 era di – 110.000 tonnellate; difficile che la situazione possa migliorare a fine anno, più facile che peggiori per tante ragioni: scarsità di prodotto, Germania in recessione, nessun nuovo mercato importante estero aperto (e qui si misura la distanza coi nostri competitor, Spagna in primis ma anche Polonia). L’ortofrutta fresca italiana, che resta una grande eccellenza produttiva e imprenditoriale, segue il destino del nostro agroalimentare, vive e lavora in deficit.
Se importiamo più di quello che esportiamo non è necessariamente una sentenza capitale, un giudizio negativo senza appello, è un dato di fatto economico. Ormai da anni importiamo più agrumi di quelli che esportiamo, ma Sicilia e Calabria hanno realtà imprenditoriali di prim’ordine nel comparto, che tutto il mondo ci invidia (e ci compra). La stessa crescita dell’import (+3,9% in volume e +’8,4% in valore nei primi 7 mesi del 2023) è l’ulteriore conferma di un sistema ortofrutta Italia che reagisce alla ridotta disponibilità di prodotto nazionale con produzioni estere che non possono mancare nell’assortimento dei grandi retailer. E non è un caso che grandi imprese che una volta facevano quasi solo export, adesso si dividano equamente tra export e import. Perché se il kiwi italiano manca bisogna andare a comprarlo in Grecia; perché se le pere italiane sono mezze scomparse, bisogna andarle a prendere in Spagna o in Belgio; e se le patate mancano le facciamo venire da Francia o Germania. Non è la fine del mondo, è una situazione fisiologica. E’ il mercato, bellezza, viene da dire. Meno fisiologico è l’atteggiamento di certe catene che volutamente penalizzano il prodotto italiano - anche quando è disponibile - per una questione di prezzo. Ma andiamo oltre.
C’è quindi una fisiologia del libero mercato (prodotti che mancano, import che cresce), di cui bisogna prendere atto. Il nostro export batte in testa mentre quello spagnolo ci ha tolto i mercati europei ed è ormai a valore 3-4 volte il nostro. Impossibile raggiungerli. Loro giocano in Champions e noi in Europa League. Noi dobbiamo cercare di mantenere i mercati che abbiamo e di crescere trovandone dei nuovi (e qui serve la politica). L’export ci serve come l’ossigeno: vendiamo oltreconfine 3,6 milioni di tonnellate di ortofrutta e ne produciamo 25 milioni. Il valore del nostro export è poco più di 5 miliardi di euro, un terzo del valore complessivo dell’ortofrutta alla fase agricola che è di 15 miliardi €. I numeri parlano da soli. Se non esportiamo, ci ritroviamo con una crisi da sovrapproduzione che può mettere definitivamente al tappeto il settore.
Il ministro Francesco Lollobrigida al Tavolo nazionale del 24 ottobre ha parlato di “pianificare lo sviluppo di un asset nevralgico per la nostra economia” … poi ha parlato di sfida “sui mercati internazionali”. Lo vogliamo prendere sul serio. Però … la cabina di regia per l’export presso la Farnesina è indistinta, ci sono dentro tutti i settori, l’ortofrutta è un comprimario, scompare. E ci risulta finora una sola riunione nel 2023. Servirebbe una cabina di regia specifica per il settore sui cui c’è l’impegno verbale del ministro. Tavoli tematici interministeriali erano stati annunciati a marzo ma non si sono visti. Anche la campagna di comunicazione per il rilancio dei consumi è stata più volte annunciata ma risulta missing. Intanto è partita quella sui consumi bio, con 800 milioni di spesa su fondi Masaf. Al prossimo Tavolo nazionale (finalmente) si parlerà di qualcosa di concreto, o saranno ancora una volta solo annunci?
*direttore Corriere Ortofrutticolo e CorriereOrtofrutticolo.it