Le attività umane legate all’agricoltura, ovvero alla produzione degli alimenti senza i quali non saremmo vivi, sono spesso considerate come le principali responsabili del pericoloso aumento della concentrazione dei gas serra in atmosfera. I tanti “esperti”, sempre presenti in televisione, sui giornali e sui “social”, non si fanno scrupolo di propinare dati spesso falsi, senza vergogna.
Per chiarirci le idee su come stanno verosimilmente le cose, diamo un’occhiata alla recente pubblicazione della FAO dal titolo “Methane emissions in livestock and rice systems. Sources, quantification, mitigation and metrics” del 25 settembre 2023.
Per prima cosa si identifica nel metano il più pericoloso gas serra carbonico in termini di influenza nei riguardi del riscaldamento globale. Per seconda cosa si indicano nella zootecnia e nella risicoltura le due attività agricole maggiormente responsabili della produzione di metano. Ovviamente non si può fare a meno né dell’una, come vorrebbero i vegani, né dell’altra, senza la quale gran parte gli abitanti dell’Asia e dell’Africa non avrebbero di che sostentarsi.
La pubblicazione, frutto del lavoro di ricerca di ben 54 esperti internazionali facenti capo alla LEAP (Livestock Environmental Assessment and Performance Partnership), indica quali potrebbero essere le strategie per limitare le emissioni prodotte dai due settori produttivi citati. Il metano, secondo questo rapporto, pesa per circa il 20% del totale di gas serra emessi in atmosfera, ma vale circa 25 volte più dell’anidride carbonica in termini di contributo al riscaldamento globale. Si stima che le emissioni di metano, da sole, contribuiscano ad aumentare di 0.5° Celsius la temperatura globale. Pertanto, il loro controllo è importante ai fini di raggiungere i parametri dell’accordo di Parigi del 2015.
Più di 150 Paesi si stanno impegnando per ridurre del 30% le emissioni di metano entro il 2030 per arrivare a non superare un incremento di temperatura di più di 0.2° Celsius entro il 2050. Tutto ciò rientra nei programmi “FAO Strategy on Climate Change” e “Strategic Framework 2022-2031”. Gli obbiettivi dichiarati, raggiungibili attraverso uno sforzo olistico, sono una miscela di “migliori produzioni, migliore nutrizione, migliore ambiente e migliore vita”, il tutto identificato come “the Four Betters”.
Il rapporto attribuisce le altre fonti di metano alla gestione delle discariche, ai sistemi di estrazione del petrolio e dei gas naturali, alle miniere di carbone. Circa il 32% delle emissioni totali di metano deriva, invece, dai processi fermentativi enterici dei ruminanti e dalla gestione dei loro letame e liquami. Mentre un altro 8% proviene dalla risicoltura.
Gli esperti della FAO richiamano l’attenzione del lettore sul problema dei sistemi che si adottano per la misura delle emissioni ed il trattamento dei dati. Ci tengono a sottolineare il rigore e la precisione delle misure effettuate attraverso sistemi sofisticati ed affidabili quali sono le camere respiratorie per gli animali stabulati e l’impiego di droni e satelliti per quelli al pascolo. Un altro fattore importante è rappresentato dalla capacità del suolo di immagazzinare metano: i suoli forestali sono i più efficienti in questo senso, anche quattro volte più dei terreni coltivati e i pascoli asciutti più di quelli umidi.
Da segnalare la “Global Conference on Sustainable Livestock Transformation” ospitata dalla FAO dal 25 al 27 settembre sorsi, nel corso della quale si è osservato che la popolazione mondiale di ruminanti è raddoppiata dal 1960 al 2017, mentre quella dei non ruminanti è più che quadruplicata, come conseguenza dell’aumento della richiesta di alimenti di origine animale, prevedibilmente del 70% per il 2050. Stando così le cose, la metanogenesi di origine animale aumenterà di conseguenza proporzionalmente.
La strada maestra da percorrere per raggiungere obiettivi di sviluppo sostenibile è lavorare per migliorare soprattutto l’efficienza alimentare. Ovvero cercare di ottenere gli stessi traguardi di produzione con diete alimentari che deprimano la formazione di metano enterico. Né, d’altra parte, vanno trascurati i gas serra azotati.
A questo proposito si è interessata anche la rivista “All About Feed” con un articolo a firma Michael Hovenjürgen, apparso il 9 ottobre scorso, ancorché sponsorizzato da una ditta mangimistica tedesca. Hovenjürgen scrive: “nel contesto della discussione a livello europeo sulla strategia sostenibile in agricoltura e nella zootecnia da latte in particolare, la domanda per una produzione di latte sostenibile è spesso associata all’efficienza a vari livelli. L’alimentazione gioca un ruolo estremamente importante ed influenza il profitto, la stabilità del metabolismo, la salute e la fertilità dell’animale. Nello stesso tempo, l’ottimizzazione alimentare dovrebbe considerare l’effetto delle emissioni gassose rilevanti per l’ambiente degli ossidi di azoto, di metano ed ammoniaca”.
La buona e sostenibile produzione di latte si basa sulla somministrazione nella razione delle sufficienti quantità di energia e proteine nel giusto rapporto tra loro. Si garantisce così il corretto andamento delle fermentazioni ruminali, responsabili delle emissioni gassose climalteranti e ci si assicura una produzione che acquisisce anche un aspetto economico. È indispensabile, però, fare attenzione alla “qualità” delle proteine. Infatti, via via che la quantità di latte prodotto aumenta, aumenta anche l’importanza della composizione del pattern di aminoacidi nella dieta, che devono essere protetti per poter sfuggire alla degradazione ruminale e poter essere assorbiti a livello intestinale.
Ma, anche la qualità dei grassi, importanti fonti energetiche, è fondamentale. Se consideriamo che la quantità di metano enterico prodotto dai ruminanti, espressa in termini di energia, è direttamente proporzionale alla quota di energia lorda della razione: circa il 2% dell’energia fornita dai concentrati e circa il 15% di quella fornita dai foraggi fibrosi, ne consegue che la quantità di metano prodotto dipende anche dalla qualità dei grassi della dieta. Ovvero, la somministrazione di grassi protetti che arrivino direttamente a livello intestinale costituisce un importante contributo energetico direttamente alla bovina e non al suo microbiota ruminale, limitando la perdita energetica rappresentata dal metano, con vantaggi per l’atmosfera.
Infine, qualche considerazione va fatta, per maggiore chiarezza, anche sui metodi di misurazione ed elaborazione dei dati dell’inquinamento atmosferico da gas serra. Già nel 1990 il famigerato IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) esprimeva dei dubbi sui limiti di affidabilità delle misurazioni effettuate, tanto che i fisici dell’atmosfera dell’università di Oxford hanno proposto la revisione dei dati che tenga conto dei riassorbimenti (fotosintesi), arrivando alla conclusione che l’intero settore agricolo europeo contribuisce per meno del 5% e non per il 12% al riscaldamento globale, valutato in termini di CO2 equivalenti (Allen et al., 2016, 2018, 2022). Sull’argomento si veda anche il libro “Meats and Cured Meats: the New Frontiers of Sustainability” uscito il 4 ottobre 2023, autori Bernardi, Capri e Pulina e la pubblicazione di Correddu et al. (Ital. J. Anim. Sci., 2023, 22:125-135).
Il commento a tutto ciò è che le attività agricole sono in parte responsabili dell’inquinamento che porta al riscaldamento globale, ma non così pesantemente come si è cercato di far credere. In particolare, i responsabili a tutti i livelli del settore zootecnico stanno facendo molto per ridimensionare il problema, soprattutto agendo sulla qualità delle diete. Gli scienziati seri fanno la loro parte con pubblicazioni serie, contro le Cassandre ambientaliste.