La copula “Agricoltura & Letteratura” può rivelarsi problematica (almeno nella nostra Letteratura italiana), o addirittura frustrante. La letteratura italiana è infatti eminentemente urbana, a cominciare da Dante, il cui perimetro mentale è fieramente cittadino, e che non ha, per la villa e i villani, se non parole di sarcastico distacco. Anche Beatrice è una ragazza di città, rappresentata contro uno sfondo urbano ben riconoscibile, anche se misticamente trasfigurato. Né inganni la Laura di Petrarca, pur spesso rappresentata entro fantasmagorie vegetali e arboree: il paesaggio agreste di Petrarca non conobbe mai aratro o vero lavoro contadino. Piuttosto, il mondo agricolo è di frequente oggetto di parodia (come nella poesia rusticale quattrocentesca, capeggiata dalla Nencia da Barberino di Lorenzo de’ Medici), o, al contrario, di artificiosa stilizzazione, come nel fenomeno dell’Arcadia. Anche il paradigma, di lunghissima durata (a cominciare dalla cornice del Decameron), che contrappone la città alla vita campagnola non restituisce al lavoro agricolo la sua piena autonomia di significato, anche quando lo rappresenta come garanzia di pace, di tranquillità, di sobria felicità, come nell’idillio pastorale di Angelica e Medoro dell’Orlando furioso o, ancor più marcatamente, nell’episodio tassiano di Erminia fra i pastori. Fa eccezione in questo quadro lo splendido poema georgico di Luigi Alamanni, La coltivazione (1590), che davvero, sulle orme di Virgilio e di Esiodo, segue il trascorrere delle stagioni e del lavoro agricolo con amorosa attenzione, occhio competente, appropriata terminologia, e vera passione per la laboriosità di quel mondo, i suoi umori, i suoi odori, i suoi sapori.
E comunque è ben vero che il mondo dell’agricoltura rimane a lungo idoleggiato come possibile alternativa alla vita di città: tipica in questo senso l’opera di Giuseppe Parini, dalle odi per i Trasformati (La vita rustica, La salubrità dell’aria) alle posizioni fisiocratiche del Giorno, ironicamente contrapposte alla furia mercantilista dei nobili alla moda. Finché, dopo l’Unità d’Italia, la scoperta della reale situazione del mondo contadino nella letteratura verista (emblematiche le raccolte verghiane, Vita dei campi e Novelle rusticane) ribalta l’idillio agreste in cruda rivelazione delle condizioni del nuovo stato: adesso la campagna e il lavoro agricolo non sono più un rifugio di schietti, sani valori, e non promettono affatto dignitosa, ma serena povertà; adesso sono il luogo della fame, della sopraffazione sociale, di ingiustizie troppo a lungo patite. Oppure, specie nelle Rusticane, la vita dei campi è il mondo della roba, ovvero della corruzione dei valori, di un’ansia bulimica di possesso che annulla ormai la distinzione fra città e campagna.
E’ questa una linea narrativa che si prolunga ben addentro il Novecento, in opere come Il podere di Federigo Tozzi (1921), o, ancora oltre, La malora di Beppe Fenoglio (1954), in cui il modello verghiano, ancora operante, viene spinto a nuovi estremi di brutalità e di violenza. Semmai, rispetto al romanzo e alla novella veriste, è la poesia che continua ostinatamente nella nostra letteratura a investire di valori positivi il mondo agreste e la sana fatica del lavoro dei campi: emblematico in questo senso l’Idillio maremmano di Carducci, in cui ancora una volta si contrappone la sanità della gente di campagna, fatta di innocente ignoranza e balda fisicità, al logorìo inane della vita intellettuale. Tuttavia anche nel poeta più programmaticamente ‘georgico’ del nostro fine Ottocento-inizio Novecento, ovvero Giovanni Pascoli, il contatto col mondo campestre è tutt’altro che tranquillo. L’idealizzazione consueta è attraversata da rimembranze e presagi mortuari, l’infanzia trascorsa nella tenuta di San Mauro torna abitata da fantasmi, e anche i Poemetti, l’opera più intenzionalmente esiodèa del Pascoli, è attraversata da inquiete implicazioni ideologiche; dal timore che la ‘siepe’, simbolo della sognata autonomia della vita di campagna e della sua autarchia, garantita dal solido possesso della terra, non regga più sotto la pressione di nuove istanze sociali di segno collettivistico.
Il rapporto Agricoltura & Letteratura rimane problematico (e perciò di straordinario interesse) anche in tempi più vicini a noi, con l’abbandono delle campagne nel secondo dopoguerra e una nuova urbanizzazione della nostra letteratura: in autori come Gadda, Pasolini, Calvino, torna a primeggiare la città, magari nelle sue superfetazioni periferiche e borgatare. Quanto alla attualità, sembra che ai giorni nostri stiamo attraversando una fase che si potrebbe definire ‘neoarcadica’, caratterizzata da una nuova, artificiosa rappresentazione idilliaca – di carattere eminentemente pubblicitario – della felice ‘genuinità’ del mondo agreste. La storia continua.