C’è l’enoturismo (fra l’altro riconosciuto e regolato da una legge dello Stato). Già si parla di oleo-turismo per valorizzare i territori del nostro extravergine. E perché non si può lavorare sull’uva-turismo, dove per uva si intende quella da tavola (differenza da sottolineare con l’uva da vino, perché molti le confondono)? Fra l’altro i territori dell’uva da tavola coincidono con quelli di due regioni (Puglia e Sicilia) che sono altrettante miniere di cultura, storia, tradizioni, arte del Belpaese, quindi ai vertici del turismo nazionale e internazionale.
Finora una delle tante ragioni che inchiodavano l’ortofrutta al ruolo di commodity era la mancanza di qualunque riferimento ai territori dell’ortofrutta. È vero che per tante produzioni l’ortofrutta si può fare al Nord, come al Sud. Però è altrettanto vero che alcune produzioni hanno un radicamento territoriale antico, storico, per tanti fattori climatici e geo-morfologici (caratteristiche dei suoli, acqua, altitudine ecc.) che non si possono replicare con successo altrove: certe varietà di mele, gli agrumi, l’uva da tavola.
Domanda: il successo del nostro vino sui mercati mondiali a cosa è dovuto? Certamente alla qualità, alla ricchezza della biodiversità e soprattutto al racconto dei territori che è l’ultima frontiera del marketing enologico. Vendiamo il vino ma dietro spunta il territorio con i suoi asset: ambiente, storia, cultura, tradizioni. E perché non lo possiamo fare con le eccellenze della nostra ortofrutta? L’idea è rivoluzionaria per il settore, però se ci pensate il mondo delle mele del Trentino Alto Adige anche qui è all’avanguardia: parliamo di mele ma mostriamo gli ambienti incontaminati delle nostre Alpi, la frutta e il suo territorio. Così per gli agrumi della piana dell’Etna: le arance rosse guardano il vulcano. Così per le patate della Sila.
Gli esempi ci sono (pochi), anche perché gli investimenti in comunicazione sono scarsi, molto scarsi, drammaticamente scarsi. Un recente evento di successo dedicato all’uva da tavola, Regina di Puglia (di cui su questo numero del giornale parliamo diffusamente) ci ha aperto gli occhi sul binomio prodotto-territorio per quanto riguarda l’uva da tavola. Ecco perché parliamo di uva-turismo, anche se agli albori. Mentre in Emilia Romagna c’è chi dice che un ciclo della frutticoltura è arrivato al termine (il riferimento quasi obbligato è alla crisi continuata e aggravata del prodotto pera, ma non solo), in Puglia c’è un ciclo che si sta aprendo, anzi si è già aperto. L’evento celebrato a Noicàttaro (incoming di giornalisti, blogger e buyer), suggellato da un accordo di rete fra otto Comuni dell’uva da tavola della Puglia (benedetto dalla Regione) ha aperto gli occhi a tanti. Business e territorio, affari e cultura possono convivere, anzi devono convivere. L’uno alimenta l’altro.
L’uva da tavola è un comparto attraversato da un cambiamento straordinario, le nostre varietà sono sempre più apprezzate all’estero (siamo i primi produttori/esportatori in Europa, dopo le mele l’uva è la nostra frutta più esportata) e anche in Italia; il mercato orienta la produzione, tant’è vero che le varietà seedless ormai rappresentano oltre il 60% degli investimenti. La ricerca cresce individuando nuove varietà solo nostre che ci sottraggono alle royalties da pagare a costitutori esteri. Il distretto dell’uva da tavola in Puglia è una realtà, sostenuta dalla Regione. E il sostegno pubblico non mancherà per fare decollare la piattaforma logistica porto di Taranto-aeroporto di Grottaglie, dove già vari privati stanno investendo sulla catena del freddo, con il primo volo cargo per Dubai previsto in settembre. E la CUT sta definendo il catasto varietale per orientare le imprese, perché senza dati non si va da nessuna parte.
L’attivismo della Puglia può servire da traino per la Sicilia, altro grande polo produttivo di qualità (con due IGP), per andare oltre la concorrenza/competizione e trovare un calendario stagionale che favorisca l’integrazione: più business per tutti anziché farsi le scarpe a vicenda. A Noicàttaro l’ISMEA con Mario Schiano ha proposto un dataroom per l’uva da tavola italiana concludendo che si può, si deve fare di più soprattutto sull’export, in particolare sui mercati extra-UE dove la nostra quota è solo dell’1,5%.
Anche qui bisogna aprire nuovi mercati, innanzitutto la Cina, forse il più importante tra i dossier aperti. Se si lavora di squadra, ha detto Schiano, in pochi anni il fatturato dell’export dell’uva può superare quello delle mele, quindi oltre un miliardo. E qui è importante il ruolo della CUT e della spinta propulsiva che la rete dei Comuni pugliesi dell’uva da tavola potrà dare alle imprese del settore, un esempio forse unico nell’ortofrutta di collaborazione pubblico-privato. E da questa rete, come dalla CUT, potrà venire una spinta importante a chiudere i dossier decisivi per quanto riguarda l’export. E servirà fare rete e sistema anche al di fuori dei confini regionali della Puglia (Sicilia).
Chi c’era non potrà dimenticare la cena sotto le stelle tra i filari delle vigne della famiglia Liturri (Agricoper), a due passi dal mare, deliziata da un ricco paniere di prodotti tipici dell’enogastronomia pugliese. Un mix straordinario di eleganza, glamour, ruralità. I vigneti coi caratteristici tendoni che diventano sfondo per una raffinata convivialità. Agricoltura, turismo e territorio in sinergia tra lo stupore di tutti gli ospiti. Forse il battesimo dell’uva-turismo.
*direttore del Corriere Ortofrutticolo