L'Accademia dei Georgofili ha recentemente realizzato e messo liberamente a disposizione degli interessati sul proprio portale (www.georgofili.it) un documento dedicato al bilancio del carbonio in agricoltura, che presenta vari casi di studio recentemente analizzati e sostenuti da dati numerici e scientifici.
Ne abbiamo parlato con il Prof. Amedeo Alpi, che ha coordinato il composito gruppo di lavoro.
Professore, innanzi tutto una domanda che può sembrare banale: perché in agricoltura si deve parlare di "bilancio" del carbonio?
Ogni bilancio prevede "entrate" e "uscite". Quindi ogni bilancio delle varie attività umane non può essere considerato esclusivamente in termini di "emissioni" di CO2 o di CO2eq di altri gas-serra, ma vanno ugualmente valutate tutte le eventuali assimilazioni di tali gas. Ciò è tanto più vero per l'agricoltura che si basa, in grande parte, sulla coltivazione di piante che, se pur emettono anidride carbonica (tramite la respirazione e la degradazione microbica dei residui vegetali lasciati nel suolo) sono grandi assimilatrici di tale gas che rappresenta la materia prima del processo fotosintetico. Anzi, occorre sottolineare che l'aumento atmosferico di CO2 esercita uno stimolo del tasso di fotosintesi e contribuisce ad accentuare la crescita delle piante.
Come è stato suddiviso il lavoro, quali casi di studio sono stati affrontati in questo documento?
Il lavoro non poteva avere per obiettivo il bilancio del carbonio, anche della sola agricoltura italiana, perché tale attività è molto complessa e determinata da troppe variabili, per cui è difficile accettare per definitivi i dati che pure circolano circa il contributo della agricoltura all'accumulo di anidride carbonica atmosferica. Siccome la questione è molto importante, nella logica della riduzione dei cambiamenti climatici che, plausibilmente, verrebbero causati dall'incremento dei gas serra nell'atmosfera, non abbiamo rinunciato a dare il nostro contributo. Dovevamo scegliere il tipo di approccio al problema e l'unica via adottabile ci è sembrata quella dei casi di studio, significativi quanto determinabili. In premessa abbiamo voluto fare considerazioni di tipo generale: a) una in merito al numero degli alberi da piantare per contrastare il cambiamento climatico; b) l'altra di ordine metodologico. La prima questione è abbastanza illusoria, appartiene a quelle attività che è comunque bene fare, ma, tutt'al più, sposterebbe il problema non lo risolverebbe. Se rimangono, come purtroppo rimarranno, tutte quelle attività umane che determinano la grande maggioranza delle emissioni di gas serra, è del tutto inutile perdersi in una guerra dei numeri. Quei numeri che noi abbiamo riportato indicano che con gli alberi -sottolineo alberi, non piante- non è possibile riportare i livelli di anidride carbonica atmosferica a quelli del periodo ante-rivoluzione industriale.
La seconda questione affrontata, quella metodologica, cerca di dare al lettore un "minimo comune denominatore" per valutare i dati presenti in letteratura che sono molti, anzi direi moltissimi, ma anche, spesso, ottenuti con metodologie diverse e riportati con unità di misura che complicano molto il confronto tra dati che è fondamentale in questo tipo di attività come in tutta la ricerca. Occorre unificare i metodi di indagine e i metodi di misura altrimenti si crea una Babele, nel senso della confusione delle lingue.
Infine sono venuti i casi di studio, scelti opportunamente nelle aree di attività agricola che, da una parte, sono le più chiamate in causa dal fenomeno delle "emissioni", dall'altra sono anche molto rappresentative dell'agricoltura italiana. In questo senso si deve vedere il caso "trattrice agricola", presa a modello delle varie macchine di uso in agricoltura. Così come la cerealicoltura è stata scelta a rappresentare le coltivazioni erbacee di pieno campo, che occupano percentuali importanti dei 12,5 milioni di ettari coltivati in Italia; importanti in questo ambito sono i dati tra l'agricoltura biologica e quella integrale, dai quali si dimostra che, in definitiva la scelta sarà sempre aziendale, sulla base di una considerazione globale tra reddito ottenibile e risultato ambientale conseguibile. Risultati simili si possono rilevare dai dati che emergono dalla "Fruit Valley" italiana, tanto colpita dalla sciagura climatica dell'ultimo mese trascorso, ma estremamente significativa sul piano produttivo e su quello del contenimento possibile delle emissioni. Considerazioni importanti riguardano altresì le produzioni animali con il caso dell'allevamento del bovino da latte: analisi così precise non erano state offerte sino ad ora ad un pubblico vasto come potenzialmente è quello dei "Focus" dell'Accademia. Analogamente si possono commentare i dati che vengono dalla gestione dei boschi italiani che hanno complessivamente raggiunto una superficie analoga a quella destinata alle coltivazioni.
Nel report IPCC (2019) c'è scritto che si stima che il 23% delle emissioni di gas serra prodotte da attività umane derivino da agricoltura, silvicoltura e altri usi del suolo, dato relativo a livello globale, mentre - stando a quanto da voi riportato - è ben diverso quello riferito all'Europa: soltanto 7% (e l'Italia è uno dei paesi più virtuosi). Perché nei mass media si tende a privilegiare la diffusione del dato più alto, generalizzando e in un certo senso fuorviando l'opinione pubblica nel giudizio sul rapporto tra settore primario e ambiente?
La discrepanza tra i dati IPCC e quelli riportati nei documenti europei, dovrebbe essere chiarito da questi organismi sovranazionali che sono stati citati. Noi del gruppo di lavoro non abbiamo nessun interesse a schierarci. Ci limitiamo ad osservare che i nostri dati, ottenuti secondo procedure di indagine sperimentale condivise dalla comunità scientifica, sono più in linea con i dati UE, ma, ripeto, il nostro dato deriva da casi di studio e non da una analisi globale dell'agricoltura. Le procedure sperimentali riportate nel nostro documento sono suscettibili di verifica: sono chiare le premesse, le metodologie, le elaborazioni dei dati e quindi le conclusioni. Su queste basi possiamo confrontarci, evitando di tirare conclusioni affrettate.
Ancora secondo quanto riportato sul documento dei Georgofili, nel confronto tra agricoltura biologica e agricoltura tradizionale, se si considera la produzione di 1 kg di grano è più sostenibile il biologico mentre, se si considera la resa per ettaro, diventa più sostenibile l'agricoltura tradizionale perché produce più del doppio. Dal momento che la FAO ci ricorda costantemente la necessità di aumentare le rese per produrre quantità di cibo sufficienti ad una popolazione globale in continua crescita, quale conclusione è opportuno trarre da questi studi che voi avete realizzato?
Non vorrei essere accusato di usare un linguaggio troppo diplomatico, ma una risposta netta a questa domanda potrebbe essere semplicistica. Sulla base dei dati riportati nel nostro documento la risposta può essere netta: l'agricoltura tradizionale è più conveniente perché aumenta le rese. Eppure sappiamo che la realtà impone scelte che variano a seconda dell'azienda, del tipo di produzione, da intercettazioni di richieste specifiche da parte dei consumatori e così via dicendo. Mi ripeto: non sto dando risposte diplomatiche, ma mi attengo a valutazioni che nelle tante realtà aziendali italiane, possono variare a seconda di fattori di mercato complessi e mutabili.
Sempre nel documento, si legge che l'attività agricola che produce più carbonio è l'aratura, ci sono soluzioni per migliorarne l'impatto ambientale?
Questo aspetto tecnico è stato molto studiato in tante realtà italiane. Si tratta di un grande problema e richiede una notevole esperienza agronomica. Una delle ultime verifiche in campo che ho fatto più di recente è avvenuta nei terreni sperimentali della Facoltà di Agraria di Piacenza. I vantaggi del "no tilling" (nessuna lavorazione del suolo) erano abbastanza evidenti, anche se la problematica è vasta e abbraccia tante condizioni ambientali anche diverse, dall'aridocoltura al semplice impiego dei residui colturali come pacciamatura per la semina "su sodo". Certamente si può ritenere vero che la pratica delle arature profonde siano in realtà produttrici di carbonio e, come tali andrebbero evitate. D'altra parte una mano leggera nelle arature viene sostenuta, da tempo, per varie considerazioni agronomiche.
Infine, se ha ancora senso parlare di agricoltura conservativa, questo risiede nel mantenere gli standard produttivi dell'agricoltura convenzionale, riducendone l'impatto ambientale; in altre parole il sistema agricolo conservativo si basa su non-lavorazione del terreno e uso delle cover-crops.