La lotta contro le mafie

di Giuseppe Quattrocchi
  • 31 May 2023

La settimana scorsa è stata molto importante perché ricorreva il trentesimo anniversario della strage di via dei Georgofili (27 maggio 1993).
L’Accademia ha celebrato la memoria di questo tragico evento con numerose iniziative. Una di queste è stato l’incontro “L’attentato in via dei Georgofili e l’impegno contro le mafie” che si è svolto martedì 23 maggio 2023, alla quale ha partecipato anche Giuseppe Quattrocchi, già procuratore capo della Procura di Firenze.
Riportiamo qui il suo intervento, del quale lo ringraziamo, perché particolarmente toccante e circostanziato, visto il ruolo da lui ricoperto. 

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“Il male non è mai radicale, ma soltanto estremo; non possiede né profondità, né dimensione demoniaca. Esso può devastare il mondo perché si espande come un fungo; è una sfida al pensiero che va alla radice delle cose. Quando il pensiero si orienta al male ne esce frustrato, non c’è più nulla. Questa è la banalità del male.”
A queste note parole di Hannah Arendt sembra ricondurre inesorabilmente l’opera di riordino e di valutazione continua di quello che oggi ricordiamo e di quel male è stato ed è espressione.
Ricordo inteso come consapevolezza storica degli accadimenti, rigorosa memoria collettiva, che deve divenire identità di un popolo e connotazione del suo statuto legale. Dal cui perimetro un aggregato criminale si è estratto, riuscendo poi ad esprimersi in termini di potere economico, socio/territoriale, di collusione politica, di sapore finanche singolarmente ideologico.
Complesso di condizioni, questo, capace di alimentare e sorreggere una sorta di ribellismo contro ogni struttura e simbolo della legalità, nel contempo maturando e praticando un diffuso progetto di intimidazione e di morte con finalità finanche imitative di talune formazioni terroristiche. E’ questo che ci è stato inflitto; sui territori inizialmente eletti e poi, come da metafora sciasciana, sempre oltre; nella geografia, nel livello degli interessi, nella dimensione delle capacità infettive della ordinata convivenza. Una mostruosa aggregazione capace di costruire il simulacro di un contropotere che si manifesta quasi a rivendicare un determinato, disgustoso ruolo funzionale a disegni in quel tempo ed in quei termini qui semisconosciuti.
Eccola la mafia che sfida lo Stato e le leggi che si è dato, addirittura acquartierata ai piedi e dentro i presidi del valore creativo degli uomini grandi. Ore 1,04 del giorno 27 maggio 1993.
Eppure quel cumulo di uomini e di fatti, di intendimenti e di danno avevano antichi e significativi richiami. A tacer d’altri dal 6.1.1980, il corpo di Piersanti Mattarella e i tanti altri senza tregua a percorrere un itinerario sanguinoso, ricco di allusioni a progetti, richieste, sanzioni, attestazioni di forza espressivi di una scoperta contrapposizione di finalità. Dispacci terrificanti, poi tragicamente recati anche nella nostra città, divenuta –come l’ha definita in udienza Gabriele Chelazzi- una “inimmaginabile offesa sovranazionale”.
Dispaccio, pensate, che prende avvio il 5 novembre 1992 dal profilo e dalle dimensioni di un vecchio ordigno ormai inoffensivo lasciato nei Giardini di Boboli. Sarebbero seguiti via Fauro, i Georgofili, S. Giovanni Laterano, S. Giorgio in Velabro, Stadio Olimpico 23 gennaio 1994. 10 morti, 5 qui accanto, due bimbe.
Quali che siano le letture, storica, politica, mediatica, giudiziaria di questo tragico e doloroso tornante della nostra storia nazionale, è certo che esso ci consegna un Paese squassato dalla violenza criminale e dai progetti eversivi di una accolita di uomini, poi contrastata e vinta dalla supremazia delle leggi e dalle istituzioni chiamate a custodirne il profilo.
Al buio angoscioso delle vite perdute non può certo corrispondere però alcuna misura di compensazione o di conforto. E’ l’eredità di quei sacrifici – tutti- e dell’impegno degli operatori di giustizia che oggi, ed ogni giorno come oggi, deve divenire ammonimento ed indirizzo di consapevole cura di ogni propria condotta, senza cadute di attenzione o ritrosie di denuncia.
Le ferite mafiose, inferte anche e gravemente in questa città alla vita e ai simboli e testimonianze della storia e dell’arte, non sono certo sanate dal vittorioso conflitto di natura militare, perché quelle associazioni criminali hanno attuali capacità articolate e spendibili, capaci come sono di insinuarsi velenosamente nel tessuto dell’economia e dell’impresa. Si tratta di una organizzazione “superior non reconoscens”, come la definiva Gabriele Chelazzi; che cioè non appare mandataria di nessuno, ma vive e persegue interessi diversificati e complessi, contagiando altresì i settori della politica e delle istituzioni, territoriali e non solo.
Così ancora oggi, come testimoniano significativi richiami investigativi e giurisdizionali.
Firenze ha vissuto l’esperienza che oggi ricordiamo ed ha interpretato con i suoi uomini e le sue istituzioni il ruolo che la legge e la maturità operativa imponevano, fedele al rigoroso rispetto dei limiti imposti dai perimetri dei fatti e dalla cornice nitida dell’apporto probatorio. Ha conseguito gli approdi giudiziari a tutti noti, mai rassegnandosi all’impegno della ricerca di ogni ulteriore segmento di responsabilità all’interno dell’aggregato criminale, ma anche ai non improbabili nessi, altrove o attorno acquisiti, ed aventi fisionomie “altre” quanto egualmente inquietanti.
Ciascuno di noi, testimone e protagonista di ogni contributo al collettivo impegno contro il fenomeno mafioso già insediatosi anche sul nostro territorio, al suo costume ed alla sua esiziale cultura, ha il dovere di diffondere la pratica di quell’impegno presso ogni possibile campo del contesto sociale, affaristico, istituzionale, del vasto mondo delle professioni locali o politico, contrastandone i progetti. Ma soprattutto imparando ad identificarne i segnali. Specie sollecitando attenzione e memoria nei giovani. Ai quali dovrà apparire chiaro che i Georgofili, quei morti, quelle stragi, quell’opera caravaggesca di Bartolomeo Manfredi devastata agli Uffizi la notte del 27 maggio 1993, ed a mio avviso divenuta il simbolo del ricercato oltraggio alla civiltà ed alla bellezza, non è un grave fatto di cronaca ed un grande processo penale. E’ stata una ferita al cuore di questo paese che chiama al quotidiano rispetto della pratica dell’igiene civica individuale e collettiva. E’ il contributo pedagogico all’essere comunità matura e protagonista della vigilanza sulla legalità repubblicana che rappresenta il solo e invalicabile muro che qualsiasi associazione mafiosa non sarebbe in grado di scalare.
Lo si faccia tutti ed ogni giorno; avendo cura di non incorrere nell’ipertrofia dei gesti e l’atropia delle coscienze.