Un approccio corretto al tema della forestazione urbana, da qualunque punto di osservazione lo si intenda leggere, di mera disquisizione teorica o viceversa pratico-operativo, richiede in modo imprescindibile la presa di coscienza e la conoscenza di due elementi: i dati, ormai consolidati, che la Scienza ci offre inerenti le diverse sfaccettature della materia; il quadro delle norme di soft e hard law che tracciano i binari che guidano l’azione della pubblica amministrazione in questo settore, costruite sulla base di quei dati scientifici.
E la scienza ormai da tempo, in modo compatto, univoco e consolidato, ha lanciato un messaggio forte al diritto: il consumo di suolo, cioè la cementificazione di aree urbane e periurbane in precedenza verdi e la conseguente relativa impermeabilizzazione irreversibile, solo in pochi casi reversibile, va fermato non solo perché è già di per sé fautore di danni all’ambiente direttamente proporzionali al valore ecologico che il suolo riveste, ma anche in quanto innesca nella città una escalation esponenziale di altre criticità di matrice ambientale, tutte strettamente interconnesse tra loro, nel senso che l’una genera e potenzia l’altra, l’aggravarsi dell’una comporta il peggioramento delle condizioni dell’altra. Instabilità idrogeologica, evidenziata anche dal rapporto 2021 di ISPRA Dissesto idrogeologico in Italia: pericolosità e indicatori di rischio; aumento del tasso di inquinamento, che alla luce dei dati OCSE potrebbe causare da 6 a 9 milioni di morti premature all’anno entro il 2060; massiccia erosione di biodiversità, habitat e specie, con conseguenze devastanti, in un’ottica antropocentrica, in termini di perdita di servizi ecosistemici; incremento dei consumi energetici, artefici del fenomeno delle isole di calore con conseguente rafforzamento, efficacemente evidenziato da ISPRA, del dislivello di temperatura tra la città e la campagna, e vorticoso aumento della domanda di raffreddamento, che, a sua volta, alla luce delle proiezioni offerte dalla scienza, può arrivare al 300% entro il 2050.
Ognuna di queste derive indotte dal consumo di suolo e la relativa sinergia potenzia il cambiamento climatico il quale poi si ripercuote negativamente su ciascuna di esse fungendo all’interno della città da moltiplicatore di insostenibilità: i rapporti dell’IPCC, Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, forum scientifico ONU creato allo scopo di studiare il riscaldamento globale, che si susseguono con meticolosa scansione temporale, dovrebbero essere attentamente letti e meditati da tutti, in particolare dalle amministrazioni comunali, perché il fenomeno del climate change e le sue conseguenze, sempre più virulente, coinvolgono tutti noi e ancora di più chi dopo di noi vivrà su questo pianeta o su quello che dello stesso resterà a disposizione dell’uomo.
La letteratura medica e i Report ufficiali dell’ONU, dell’OMS e della FAO hanno ampiamente dimostrato come tutte queste singole emergenze ambientali e climatiche individualmente e, in modo potenziato, nel gioco perverso delle reciproche interconnessioni, abbiano un’incidenza significativa e acclarata sul benessere e sulla salute di chi vive nelle città, contribuendo ad incidere sulla diffusione e radicazione di nuove epidemie e pandemie, sull’aumento di sindromi cardiocircolatorie e respiratorie; sull’aumento di forme tumorali a induzione ambientale; sull’aumento del diabete; sull’aumento di obesità infantile a sua volta interrelata con patologie cardiache; sull’aumento dei disturbi di tipo neurocognitivo con demenza degenerativa, presenile o senile (Alzheimer).
Questa apocalittica voragine che il consumo di suolo apre nelle nostre città allunga i suoi tentacoli fino a ripercuotersi sull’economia come dimostrano i dati raccolti nel Rapporto ISPRA 2021, che quantificano in un costo complessivo compreso tra gli 81 e i 99 miliardi di euro, in pratica la metà del Piano nazionale di ripresa e resilienza, quello che l’Italia potrebbe essere costretta a sostenere a causa della perdita dei servizi ecosistemici dovuta al consumo di suolo tra il 2012 e il 2030.
Cassandrianamente evidenzio come ulteriore motivo di inquietudine, o meglio, auspicabilmente di riflessione costruttiva, le proiezioni emerse dal documento redatto nel 2018 dal Department of Economic and Social Affairs delle Nazioni Unite (UN DESA), Revision of World Urbanization Prospects, sull’aumento esponenziale della popolazione mondiale che vive nelle città che già oggi ha superato quella rurale, ed è destinata a crescere dai 3,9 miliardi attuali ai circa 6,4 miliardi di persone entro il 2050: cresce la densità abitativa e proporzionalmente sono destinate ad aggravarsi le emergenze ambientali.
Forse è arrivato per i nostri amministratori locali il momento di ascoltare la scienza, di cambiare rotta, di fare scelte diverse e più illuminate nell’uso del suolo urbano, che non si traducano nelle obsolete e anacronistiche forme della sua cementificazione che tanti danni ha fatto in passato e continua indefessamente a fare; ma siano mirate a mantenere e potenziare aree verdi all’interno della città anziché a costruire l’ennesimo centro commerciale, evitando così quella famigerata impermeabilizzazione del suolo che la scienza ci chiede di fermare.
Un coraggioso quanto indispensabile cambio di rotta in questa direzione consentirebbe alle amministrazioni comunali di allinearsi anche alle reiterate e pressanti indicazioni della più illuminata politica ambientale internazionale e dell’Unione Europea che si è mossa seguendo le orme segnate dal mondo scientifico, le quali coralmente sollecitano ad adottare misure mirate a frenare il consumo di suolo. La lotta al consumo di suolo è al centro dell’Agenda 2030 dell’ONU, ed è funzionale alla realizzazione di oltre la metà dei suoi Goals; sul versante dell’Unione Europea si registra una lunga teoria di provvedimenti che convergono nella realizzazione dell’obiettivo trainante di ridurre a zero l’incremento dell’occupazione netta di terreno in Europa entro il 2050, dalla Strategia tematica UE per la protezione del suolo, alla tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse del 2011, fino alla più recente Strategia Europea per il Suolo per il 2030 che si colloca sotto l’ombrello del Green Deal Europeo, e inquadra la lotta al consumo di suolo come uno degli strumenti che consentiranno di realizzare l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050. Che obiettivo utopistico, irrealizzabile, quello dell’azzeramento di suolo, può osservare in modo beffardo qualche benpensante: signori, l’obiettivo sarà anche utopistico ma è importante e strategico perché lancia il messaggio di una linea da seguire, diversa, innovativa, in sintonia con la scienza, verso la imprescindibilità di un cambio di passo nella pianificazione e nella progettazione delle città.
La pressione dell’Unione sugli Stati membri, soft nella forma giuridica ma intensa nella sostanza, si accompagna alla messa a disposizione di Linee guida redatte nel 2012 dalla Commissione Europea in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo da definire dettagliatamente ad opera degli stessi Stati membri.
È a questo massiccio pacchetto di indicazioni normative che le amministrazioni comunali dovrebbero ispirarsi, non trincerandosi dietro il facile alibi della colpevole assenza in Italia di una legge nazionale sul consumo di suolo: qui si apre uno scenario desolante, le diverse forze politiche che si sono alternate al governo del nostro paese si sono adagiate sul trito cliché di issare nei loro proclami elettorali la bandiera della lotta al consumo di suolo, promettendo l’adozione di un provvedimento legislativo ad hoc; in realtà uno sguardo a ciò che realmente è stato fatto in un luogo arco di anni fino ad oggi rivela un imbarazzante susseguirsi di progetti di legge sul consumo di suolo che nel tempo si sono tristemente arenati sulle sponde delle aule parlamentari.