Sappiamo tutti che i nostri paesaggi urbani sono stati costruiti e modellati per centinaia se non migliaia di anni (pensiamo a Roma) con la formazione di un mix di specie autoctone e esotiche. Le specie che ora abbiamo nelle nostre città sono il risultato di scelte fatte da moltissime persone, per lo più indipendenti l'una dall'altra e sulla base delle proprie preferenze. Alcune aree urbane sono state ben programmate e successivamente ben gestite come, ad esempio, alcuni dei nostri parchi cittadini, alcuni giardini e anche alcune alberature stradali, mentre altri spazi, soprattutto quelli meno centrali, sono stati colonizzati da specie opportuniste ed esotiche.
Con le modifiche susseguenti alla trasformazione dei paesaggi agrari o pseudonaturali (nel nostro paese, antropizzato da diverse migliaia di anni è azzardato parlare di paesaggi naturali visto che l’uomo ha praticamente modificato e modellato il paesaggio fin dalla preistoria) gli habitat indigeni sono stati distrutti, modificati e/o frammentati, e le specie che non sono native di quelle aree si sono affermate per caso o per mano dell’uomo.
Che ci piaccia o no, ci sono molte specie non native che vivono nelle nostre città; si pensi, fra quelle piantate dall’uomo al cipresso, al pino, specie naturalizzate, ma non prettamente native o al platano che è l’ibrido naturale Platanus x acerifolia, ottenuto dall’incrocio fra P. orientalis, nativo delle nostre zone sud-orientali e il P. occidentalis di origine americana), mentre fra quelle diffusesi dopo la loro introduzione possiamo ancora ricordare la Robinia pseudoacacia o l’ecologicamente devastante Ailanthus altissima (FOTO). Hanno approfittato delle possibilità fornite da aree “disturbate” e da terreni abbandonati e che esse sono “ecologicamente” adatte a occupare. Riguardo a questo ci troviamo spesso stupiti dalla capacità di alcune specie di occupare habitat e ambienti marginali, come le crepe in aree pavimentate, terreni poveri con elevata salinità o spazi con scarso accesso ad acqua e sostanze nutritive (si pensi anche al naturalizzato fico).
Mentre è indubbio che dovremmo cercare, ove possibile, di stabilire e mantenere aree, soprattutto extraurbane, con specie esclusivamente autoctone, non può essere realistico pensare che abbiamo il tempo, il denaro e le risorse per gestire le nostre aree urbane esistenti e la natura in città con una logica “purista” e con una prospettiva “solo specie native”. Perciò, come detto nella prima parte di questo articolo (
http://www.georgofili.info/detail.aspx?id=2739), nei nuovi impianti dovremmo dare la preferenza a quelle specie in grado di garantire performance di crescita e, conseguente, benefici adeguati, siano esse native o non native.
Un focus che limiti i nuovi impianti esclusivamente alle specie native nelle aree urbane potrebbe creare più problemi di quanti ne possa risolvere. Che cosa significa infatti "nativo" in un paesaggio antropico fatto di strutture costruite, dove le situazioni micro e mesoclimatiche sono talvolta estreme in termini di temperatura, scarsità di risorse, sostanze inquinanti, ecc.?
Oltretutto la natura è dinamica, in continua evoluzione per adattarsi ai cambiamenti. Nelle sue varie forme e funzioni (che si tratti di piante o animali), essa è la contabilizzazione dei cambiamenti indotti dall'uomo, e si riorganizza per formare nuovi ecosistemi. Gli spazi urbani sono dunque nuovi ecosistemi costituiti da un mix di piante coltivate, esotiche spontanee, indigene spontanee, erbacce invasive, ibridi e altro ancora. Indipendentemente dalla loro origine, la maggior parte di queste sono “gradite intrusioni” nelle nostre giungle urbane di cemento poiché assolvono numerose funzioni ecosistemiche nelle aree densamente costruite e popolate.
Per cui al posto della logica integralista "native buone, aliene cattive" gli ambientalisti dovrebbero solo guardare alle specie realmente invasive capaci di alterare alcune funzioni dell'ecosistema, piuttosto che enfatizzare la purezza naturale. È, quindi, logico chiedersi: quanto è veramente importante piantare rigorosamente specie autoctone nelle aree urbane? Le specie native possono fornire i servizi ecosistemici richiesti nelle specifiche situazioni urbane, oppure ci sono specie esotiche capaci di performances migliori?
Una volta che si è risposto a queste domande in modo pragmatico e scientificamente corretto, si possono fare delle scelte giuste.
Da: ABOUTPLANTS, 11/05/2016
Native and exotic plants in the evolution of urban landscape
We all know that our urban landscapes have been set up and modelled for hundreds and thousands of years (just think of Rome) using a mixture of native and exotic species. The species that we now have in our cities are the result of choices made by a multitude of people, mostly independently and based on one’s own preferences. Some urban areas have been well planned and afterwards well managed such as some of our town parks, public gardens and tree-lined streets. Other spaces, especially the less central ones, have been colonized by opportunistic or exotic species.
With the changes following the transformation of agrarian or pseudo-natural landscapes (in our country, that has been inhabited for thousands of years, it is difficult to talk about natural landscapes as human action has changed and modelled the landscape since prehistory) native habitats have been destroyed, modified and/or fragmented, and the non-native species have established by chance or by human action.
Instead of the fundamentalist logic of “native good, foreign bad”, environmentalists should only take into consideration the really invasive species able to alter some functions of the ecosystem rather than underlining natural purity. It is therefore logical to wonder: how important is it really to strictly plant native species in urban areas? Native species can supply the ecosystem services required in specific urban situations or are there exotic species capable of better performances?
Once we answer these questions in a pragmatic and scientifically correct way, we will be able to make the right choices.