Nella storia della ricerca in agricoltura il tema del miglioramento genetico e di come questa possa contribuire a migliorare i risultati produttivi ottenibili ha l’immagine di un fiume carsico che scorre, cioè, sotterraneamente riemergendo con forza periodicamente in superficie.
Ciò dipende in primo luogo dalle modalità con cui si approcciano i risultati scientifici ed in secondo luogo dalle disomogenee caratteristiche del modello produttivo adottato da parte delle imprese agricole italiane.
Da sempre in Italia si confrontano assetti organizzativi diversi che danno diversi risultati con riguardo alle produzioni ottenute.
Se da una parte abbiamo un’agricoltura che basa le proprie strategie produttive sulle caratteristiche qualitative della produzione e sulla capacità di valorizzarla economicamente come testimoniato anche dalla numerosità dei marchi DOP e IGP , dall’altra siamo in presenza di una componente agricola i cui tratti salienti sono quelli dell’innalzamento del livello di produttività basato sul continuo apporto di innovazioni tecnologiche miranti ad un aumento delle rese per unità di fattore produttivo impiegato o in alternativa ad una riduzione nell’impiego dei fattori stessi con conseguente contenimento dei costi.
Entrambe le impostazioni hanno la loro legittimità dettata dalle libere scelte imprenditoriali che concorrono a dar luogo ai due modelli produttivi identificati.
I due modelli danno luogo, tuttavia, a necessità diverse con riguardo alle caratteristiche degli input da utilizzare nel processo produttivo e, tra questi, un ruolo di primo piano lo giocano le caratteristiche delle sementi utilizzabili.
In un recente passato il dibattito scientifico si è concentrato sull’utilizzo delle sementi geneticamente modificate attraverso l’applicazione di innovazioni di natura biotecnologica cioè della creazione di nuove varietà attraverso meccanismi non riproducibili in natura.
Tale impostazione ha trovato terreno fertile negli assertori di una scelta di campo strategica basata sulla necessità di migliorare, attraverso l’utilizzo di sementi geneticamente, modificate il risultato produttivo mettendo al riparo la produzione stessa da esiti negativi di varia natura determinati dalle contingenze.
Com’è noto il Governo italiano compì una scelta definitiva nel 2015 decidendo di proibire, assieme alla maggioranza dei Paesi Comunitari la semina di organismi geneticamente modificati sul proprio territorio indicando implicitamente l’orientamento politico verso modelli produttivi basati sulla valorizzazione qualitativa delle produzioni.
Tale orientamento aveva l’obiettivo di indicare quindi una chiara direzione di marcia che non escludeva l’applicazione dell’innovazione a scopi produttivistici ma piuttosto la sua introduzione sulla base di criteri di sostenibilità piena ed effettiva.
La sostenibilità piena ed effettiva non sembrerebbe assicurata dall’utilizzo di sementi geneticamente modificate sia sotto l’aspetto ambientale con riferimento al rischio di contaminazione e di riduzione della biodiversità che della salute della popolazione con riguardo ai possibili rischi per la sicurezza degli alimenti.
Dal punto di vista economico l’utilizzo non sembrerebbe sostenibile atteso il maggior costo di approvvigionamento sopportato da parte degli agricoltori causa il riconoscimento del valore del diritto di proprietà sulle invenzioni biotecnologiche realizzate.
Un’ esatta analisi dei costi sopportati e dei benefici ritraibili potrebbe in questo senso dare riscontri più puntuali sulla sostenibilità delle innovazioni in generale e delle applicazioni biotecnologiche in particolare.
Peraltro, gli indirizzi politici di non esclusione dell’innovazione a fini produttivistici è testimoniata dal parallelo sviluppo di tecniche produttive meno impattanti e più sostenibili com’è ad esempio l’agricoltura di precisione o l’impiego delle biotecnologie per usi non alimentari.
Rinunciare agli OGM non ha voluto dire rinunciare all’innovazione a fini produttivistici ma soltanto a delinearne meglio i confini.
Negli ultimi tempi l’utilizzo di sementi geneticamente modificate è stato riproposto da una parte della comunità scientifica attraverso la tecnica del genoma editing adducendo come elemento di novità il fatto che la nuova tecnica messa a punto ricorre, a differenza del passato, a modifiche indotte attraverso l’introduzione di nuovi caratteri senza dover ricorrere all’inserimento di geni da altre specie come accadeva in passato.
Il superamento di detto limite se da un lato rende probabilmente più spendibili i nuovi prodotti, soprattutto in termini di esposizione al rischio alimentare, dall’altro lascia del tutto insolute le problematiche precedentemente espresse con particolare riferimento alla sostenibilità economica e ambientale degli impieghi.
Al fine di superare logiche di parte è necessario che la questione del genoma editing così come tutte le tematiche riguardanti la sicurezza alimentare e quella degli alimenti vadano affrontate inserendole all’interno di una strategia politica più ampia basata sul livello di sostenibilità delle innovazioni proposte, tenendo nel dovuto conto le opinioni espresse dai diversi portatori di interesse a partire da agricoltori e cittadini anelli deboli del sistema agroalimentare.
Tutto ciò fine di dar luogo a politiche in grado di difendere l’interesse nazionale in un quadro di legittimità condivisa.