Sono ormai diversi anni che alcuni fisici dell’atmosfera della prestigiosa università di Oxford stanno studiando i contributi relativi dei vari gas serra al fenomeno del riscaldamento globale (Allen et al., 2016, Nat. Clim. Change, 6: 773-776; Allen et al., 2018, NPJ Clim. Atmos. Sci., 1:1-8; Allen et al., 2022, NPJ Clim. Atmos. Sci., 5:1-16), giungendo alla conclusione che i dati diffusi finora non sono scientificamente attendibili, perché partono da un approccio non corretto nell’attribuzione delle responsabilità dei singoli gas.
Delle conclusioni dei ricercatori oxfordiani hanno fatto tesoro alcuni colleghi italiani per ricalcolare i contributi dei gas serra di origine zootecnica. Lo studio di Correddu et al. (Correddu et al., 2023, Ital. J. Anim. Sci., 22: 125-135), condotto nell’ambito del progetto di “Carni Sostenibili”, presieduto da Giuseppe Pulina, fornisce conclusioni che, oltre ad essere sorprendenti, servono a dimostrare l’inattendibilità di molte affermazioni dei cosiddetti “animalisti”.
A questo proposito, a solo scopo informativo, vale la pena di ricordare alcune “perle” come quella di una certa Ylenia Vimercati, la quale, il 25 maggio 2018, sulla “Rivista della Natura” scriveva: “uno studio del 2009 del Worldwatch Institute sottolinea che abbiamo ampiamente sottostimato la fonte che causa circa il 50% delle emissioni di gas serra dovute alle attività umane. Si stima infatti che le emissioni globali dell’industria zootecnica superino del 28% quelle dell’intero settore dei trasporti. Sembra che mangiare carne, uova e latticini provenienti dagli allevamenti abbia un impatto ben più profondo sull’aria che respiriamo rispetto a tutte le vetture, navi, aerei e treni messi insieme”. O come le affermazioni dell’economista americano Jeremy Rifkin, autore del best seller “Third Industrial Revolution”, che si dice “sicuro di riuscire, prima o poi, a provare che l’agricoltura è la prima causa del riscaldamento globale, nonostante che l’ONU e la FAO affermino che è la seconda causa”.
Ma torniamo alle cose serie.
Il nuovo metodo di calcolo parte dalla differenziazione fra i gas serra di breve durata in atmosfera (SLCP = Short Living Climate Pollutants), come il metano (CH4) che dopo poche decine di anni sparisce, e quelli di lunga durata (LLCP = Long Living Climate Pollutants), come l’anidride carbonica (CO2) che, al contrario, permane in atmosfera anche un migliaio di anni. Quindi, il metano contribuisce in misura molto minore della CO2 al riscaldamento globale. Non solo, ma proprio perché rimane brevemente in atmosfera, può anche avere effetto nullo o addirittura negativo.
Considerato questo rapporto fra i gas serra, i ricercatori italiani hanno calcolato l’effetto termico del metano rispetto a quello della CO2 in atmosfera, ribaltando la situazione precedente che considerava il metano circa venti volte più potente della CO2 in termini di potere riscaldante globale (GWP). Hanno poi applicato i nuovi parametri alla situazione delle emissioni di gas serra da parte delle attività zootecniche italiane nel lasso di tempo dal 1990 al 2020, usando i dati ufficiali ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale).
I risultati sono sorprendenti. Il contributo cumulativo globale della nostra industria zootecnica alla produzione di gas serra, compreso il protossido di azoto (N2O), negli ultimi dieci anni, è risultato molto ridimensionato rispetto ai valori calcolati col metodo precedente. Le emissioni sono risultate addirittura negative per circa 49 milioni di tonnellate di CO2. Nel caso del metano, il ridimensionamento delle emissioni provoca, nei venti anni di tempo considerati, una rarefazione del gas serrigeno, ovvero un raffreddamento dell’atmosfera corrispondente ai 49 milioni di tonnellate di CO2. In altre parole, senza entrare in ulteriori dettagli, un allevatore che mantiene costante nel tempo le emissioni di gas serra non contribuisce al riscaldamento globale, ma pagherebbe la carbon tax come un’industria che scarica CO2 che, al contrario, si accumula per secoli.
Gli autori concludono l’abstract del loro lavoro affermando che, nella decade dal 2010 al 2020, le responsabilità degli allevamenti animali italiani sono risultate sensibilmente inferiori rispetto ai valori calcolati in precedenza relativamente all’impatto sul riscaldamento globale riferibile al metano.
In aggiunta a tutto ciò, è doveroso citare anche parte dell’intervento del prof. Windisch dell’università di Monaco di Baviera all’ultimo webinar di “Shothorst Feed Research” (02/02/2023). Windisch ha osservato che “c’è una differenza sostanziale ed indiscutibile fra la CO2 emessa da un animale come prodotto della combustione metabolica dei nutrienti di cui si è cibato (emissione biogenica) e quella emessa da un veicolo per combustione interna di una fonte energetica fossile. Nel primo caso quella quantità di CO2 era già presente in atmosfera prima di esser convertita, per fotosintesi clorofilliana, in carboidrati dei foraggi di cui l’animale si è alimentato. Nel secondo caso si è formata ex novo a partire dal carbonio degli idrocarburi, non presenti in atmosfera prima dell’estrazione dai giacimenti sotterranei. Più semplicemente, nel primo caso la CO2 viene riciclata attraverso le due fasi della fotosintesi nelle piante e della digestione negli animali e il bilancio del carbonio, considerato come elemento, in atmosfera si chiude in parità. Nel secondo caso va ad aggiungersi a quella già presente, aumentandone la concentrazione.
Dopo aver letto e meditato sui lavori dei ricercatori inglesi, sui risultati del progetto “Carni Sostenibili” guidato dal nostro prof. Pulina e sulle considerazioni del prof. Windisch, noi omnivori ci possiamo mettere a tavola senza sentirci troppo in colpa.