Qualche decennio fa, trasferendomi a una sede universitaria settentrionale dopo un fecondo quinquennio siciliano, feci la conoscenza di una parola che mai nella mia carriera avevo sentito profferire dai miei maestri in arboricoltura, né a dire il vero da nessun altro: piantumazione.
Parola, con i suoi affini piantume e piantumare, che ha in seguito acquisito grande popolarità tra i non addetti ai lavori, compresi i giornalisti che sulla carta e nell’etere ne fanno ampio uso.
In questa sede non è possibile affrontare la questione come merita, ma cercherò di accennare a qualche punto significativo.
Pare che sia stato il grande Lazzaro Spallanzani a utilizzare, verso la fine del ‘700, questa parola in una lettera. Altra citazione isolata quella del grande recanatese, Giacomo Leopardi, che scrive a un vivaista chiedendo l’invio di un “piantume”. Poi presenze più che rare, praticamente assenti, nella letteratura, fatta salva qualche segnalazione nel linguaggio burocratico, e assolutamente inesistente nei testi scientifici e tecnici, come testimoniano tutti i colleghi del settore, concordi nel rifiutare l’uso di questo termine per indicare quello che dovrebbe essere impianto, piantagione e, soprattutto, messa a dimora di piante, in particolare di alberi.
La parola non si trova nel «Terminologia forestale» del Prof. Bernetti G. et al. (1980) edito dall'Accademia Italiana di Scienze Forestali e dal Consiglio Nazionale delle Ricerche. Ed è sempre stata ripudiata con forza, e anche con humour, dal Prof. Alessandro Chiusoli, uno dei maggiori esperti di verde urbano dell’ultimo mezzo secolo. Idem per l’arboricoltura da frutto.
Quindi non si può attribuire all’Accademia l’introduzione di questo termine improprio, pur se i vocabolari, che si limitano a registrare l’uso dei vocaboli e non la loro legittimità o opportunità, stanno cominciando, uno dopo l’altro, ad ammetterlo nelle più recenti edizioni.
Purtroppo, in un’epoca di crescente approssimazione culturale e di passione per le mode, anche linguistiche (si pensi soltanto all’imperversare dei termini in inglese, spesso usati a sproposito, e quasi sempre in presenza di termini italiani altrettanto efficaci), il vocabolo ha trovato accoglienza tra gli arboricoltori improvvisati, e massime tra i giornalisti, che purtroppo sembra ne siano rimasti affascinati.
Per noi arboricoltori però, la resistenza all’uso di questi termini non deriva tanto da una maggiore o minore legittimità semantica e lessicale: si è visto ben altro! No, la resistenza deriva soprattutto dalla caratteristica “estetica” della parola, da un punto di vista fonetico: tutte le parole che terminano con la desinenza -ume indicano quantità indeterminate di materiali grossolanamente indicati, e in genere con valore dispregiativo: pattume, cerume, appiccicume, lordume, marciume, sudiciume e così via. Ora, come possiamo maltrattare in modo siffatto un’operazione nobile come la messa a dimora di alberi, che tende ad arricchire il mondo di verde, un verde permanente che come ben sappiamo svolge un’opera altamente meritoria e addirittura, visti i tempi, salvifica, per gli effetti benefici sull’aria, sulla vita anche animale, sulla serenità degli umani, e per tante altre ragioni che non credo in questa sede di dover ricordare? È piuttosto vero che troppo poco si valorizza la diffusione del verde in ogni spazio che sia disponibile, troppo poco si fa capire al più ampio pubblico quanto importante sia il verde urbano e non. Altro che parole dal suono spregiativo. Quindi piantiamola col piantume!