Il miglioramento genetico della vite sta attraversando un momento particolarmente delicato, dal momento che a Bruxelles la Commissione europea dovrebbe giungere, nel giro di alcuni mesi, ad una revisione della normativa 2001/18, che attualmente assimila agli Ogm le accessioni di vite ottenute con le tecnologie di evoluzione assistita (Tea), che, come tali, non sono ammesse alla coltura nelle nazioni Ue. La revisione dovrebbe consentire nei singoli paesi dell’Unione la coltivazione dei cloni ottenuti con le Tea, analogamente a quanto avviene per i cloni derivanti da mutazioni naturali, che non sono considerati Ogm.
I cloni resistenti di Vitis vinifera
L’abrogazione della norma 2001/18 sarebbe di particolare importanza per l’Italia, dove Il FEM di San Michele all’Adige, vari Centri di Ricerca e diverse Università (ad es. Udine e Verona), stanno utilizzando le Tea per indurre le mutazioni per la resistenza alle malattie fungine nel patrimonio genetico di alcuni vitigni “italici”, rigenerando poi, a partire da cellule mutate, individui completi dotati dei caratteri di resistenza. Il punto critico del processo è indubbiamente quello della rigenerazione, ma nei mesi scorsi è stata pubblicata la notizia che i Ricercatori del CREA-VE sono riusciti a rigenerare embrioni somatici nella varietà “Glera” (l’ex Prosecco), facendo così un passo fondamentale per ottenere in tale varietà mutazioni “mirate” che la rendano tollerante o resistente all’oidio e alla peronospora.
Qualora le viti ottenute con le Tea (in particolare con la cisgenesi e il genome editing) non fossero più considerate Ogm, i primi cloni “editati” di importanti varietà del nostro paese (ad es. Corvina, Montepulciano, Sangiovese e lo stesso Glera), potrebbero uscire dai laboratori ed essere sperimentati in pieno campo nel giro di alcuni anni, per essere successivamente iscritti al registro nazionale e moltiplicati.
Sotto il profilo legislativo le accessioni Tea, in quanto “cloni” di vitigni tradizionali non dovrebbero avere difficoltà ad essere ammesse alla coltivazione nelle diverse regioni italiane e ad essere utilizzate per ogni tipo di vinificazione (da tavola, Igt, Doc e Docg), poiché manterrebbero l’identità dei singoli vini. I cloni mutati manterrebbero di diritto anche il nome della varietà, con la qualifica aggiuntiva della caratteristica indotta dalla mutazione (ad es. “Corvina resistente” o “Montepulciano resistente”) e il loro impiego sarebbe in linea con la sostenibilità delle produzioni agricole voluto dalla Ue, che ha proposto di ridurre del 50% l’uso dei fitofarmaci entro il 2030. Allo stato attuale delle ricerche è comunque facile prevedere che anche se la norma 2001/18 fosse abrogata in uno dei prossimi mesi, sarebbero comunque lunghi i tempi di sperimentazione in campo delle nuove accessioni (3-5 anni) e altrettanto lunghi i tempi per la loro iscrizione al registro varietale e per la loro moltiplicazione in vivaio.
In pratica, se dal 2023 le mutazioni prodotte con le Tea non fossero più considerate Ogm e tenendo conto che la vita media di un vigneto si aggira sui 25-35 anni, è possibile ipotizzare che solo attorno al 2060 molte aree Dop e non Dop avranno rinnovato completamente la superficie a vigneto utilizzando i cloni resistenti. In questa auspicabile ipotesi la quantità totale di fitofarmaci utilizzati nel complesso della viticoltura italiana potrebbe veramente ridursi ben oltre il 50% voluto dalla Ue, valorizzando ulteriormente la nostra viti-enologia, che è basata su una molteplicità irrinunciabile di vitigni “italici” ad uve rosse o bianche di grande pregio (Nebbiolo, Arneis, Glera, Corvina, Sangiovese, Vermentino, Montepulciano, Aglianico, Primitivo, Fiano, Falangina, Nero d’Avola, Catarratto, Grillo, Cannonau e moltissimi altri).
La disponibilità di cloni resistenti potrebbe non solo valorizzare e rendere più ecosostenibile la nostra viticoltura tradizionale, ma anche aprire nuove prospettive al miglioramento genetico della Vitis vinifera, poiché potrebbero essere incrociate tra loro le accessioni resistenti di vitigni diversi, allo scopo di aumentare l’eterozigosi ed ampliare la variabilità dei caratteri ottenibili. Potrebbero così essere selezionate nuove cultivar di ascendenza “italica”, con caratteristiche agro-enologiche adatte all’evoluzione dei cambiamenti climatici in atto, che stanno già condizionando in modo negativo alcune importanti aree viticole del nostro paese.
Se nei prossimi anni dovessero realmente verificarsi gli aumenti termici previsti dai modelli climatici per il 2050 e per fine secolo (in media da 2 a 5 °C in più), tali cambiamenti penalizzerebbero ulteriormente la nostra viticoltura, soprattutto nel mezzogiorno e nelle isole. Sarebbe quindi importante poter disporre di nuove varietà resistenti di vinifera che abbiano anche un alto fabbisogno termico (cioè siano a maturazione molto tardiva), o che siano in grado di mantenere elevati gli aromi e l’acidità organica a piena maturazione, o infine di varietà meno sensibili ai processi di foto inibizione connessi alle punte di calore estive. Le nuove accessioni potrebbero essere inserite in modo autonomo a fianco delle cultivar tradizionali o potrebbero essere integrate nei disciplinari di molti vini italiani da tavola, Igt, Doc, ed anche Docg, per correggere le alterazioni prodotte dai cambiamenti climatici sul ciclo di maturazione dei vitigni tradizionali.
I vitigni ibridi resistenti
Le prospettive di impiego dei cloni resistenti di alcuni vitigni “italici” sono affascinanti, ma poiché realisticamente la loro utilizzazione richiederà tempi molto lunghi, è opportuno chiedersi se esistono altre possibilità per limitare a breve termine l’impiego dei fitofarmaci e rendere più ecosostenibile la coltura della vite.
Sotto questo profilo, la ricerca italiana volta a ridurre l’inquinamento ambientale è ancora oggi prevalentemente orientata a creare nuove varietà interspecifiche ottenute da incroci tra la Vitis vinifera e ibridi di varia origine, a loro volta provenienti da incroci con specie di vite non europee (lincecumii, rupestris, labrusca, riparia, rotundifolia, amurensis). Peraltro, secondo la nostra legislazione (D. L. 61/2010 e legge 238/2016), i vitigni interspecifici possono essere vinificati solo per la produzione di vini da tavola e di vini a denominazione geografica tipica (Igt). Non è stato infatti recepito dalla vigente normativa il nuovo Regolamento Ue n. 2021/2017 dello scorso dicembre, in cui si stabilisce che gli incroci tra la Vitis vinifera e altre specie del genere Vitis possono essere utilizzati anche nelle Dop.
Nonostante questa limitazione, sono già più di 20 i vitigni resistenti iscritti al nostro registro varietale, e molti sono stati ammessi alla coltivazione per produrre vini da tavola e Igt in varie regioni (Province autonome di Trento e Bolzano, Friuli-Venezia Giulia, Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna, Abruzzo). Alcuni sono stati ottenuti nel nostro paese dall’Università di Udine e dal FEM di San Michele all’Adige, reincrociando ibridi di genealogia complessa ed eterogenea (Kozma, Merzling, Bianca, 20-3, ecc.) con varietà di Vitis vinifera di origine francese (Cabernet Sauvignon, Merlot, Pinot, Sauvignon), o di origine italiana (Teroldego, Tocai friulano, Nosiola).
I vantaggi degli ibridi per rendere più ecosostenibile la coltura della vite sono ormai ampiamente riconosciuti, ma i dati disponibili indicano che la consistenza dei loro impianti ammonta oggi a poco più di 2.000 ettari, cioè appena lo 0,6% della superficie italiana che produce vini da tavola e Igt (circa 350.000 ettari) e meno dello 0,3% della superficie totale della nostra viticoltura per uve da vino (Dop e non Dop), che si aggira sui 680.000 ettari. Tuttavia non vi è dubbio che l’impiego degli ibridi continuerà a crescere, ma gli effetti del loro uso sulla complessiva sostenibilità del comparto viticolo si manterranno limitati e al di sotto delle richieste Ue, poiché nella maggior parte delle regioni i vigneti per vini da tavola o Igt costituiti con viti resistenti saranno sempre in quantità inferiore rispetto ai vigneti che impiegano i vitigni classici di Vitis vinifera.
E’ ipotizzabile che se anche la nostra legislazione permettesse di vinificare i vitigni interspecifici nelle Doc e nelle Docg, il loro contributo alla riduzione dell’inquinamento da fitofarmaci sarebbe ugualmente marginale, poiché presumibilmente sarebbero inseriti nei disciplinari solo in quote molto ridotte (5-10-15%?).
Indipendentemente dalla diffusione più o meno ampia delle varietà ibride, merita ricordare che ad alcune di esse è stato dato il nome aggettivato del genitore francese di Vitis vinifera usato nell’incrocio, allo scopo di renderle più “appetibili” sotto l’aspetto psicologico e sotto quello commerciale. Scelte di questo tipo sono però criticabili, perché confondono il significato della parola “varietà” con quello della parola “clone”, e possono far pensare che la varietà resistente si comporti come un clone della varietà “originale” per tutti gli altri caratteri.
L’utilizzo di nomi che richiamano il genitore europeo è stato giustificato con il fatto che taluni ibridi provengono dall’incrocio di una varietà donatrice di resistenza (in genere un ibrido complesso) con uno specifico vitigno di Vitis vinifera, a cui hanno fatto seguito 5-6 generazioni di reincrocio della progenie resistente con il medesimo vitigno di vinifera (genitore ricorrente). Lo scopo del reincrocio è quello di aumentare progressivamente nella progenie la parte di DNA proveniente dalla varietà europea, riducendo allo stesso tempo i tratti tipici delle specie americane od asiatiche. Non si deve però dimenticare che ogni nuova accessione interspecifica resistente, anche se ottenuta dopo numerosi reincroci con una singola varietà di Vitis vinifera, avrà sempre alcune caratteristiche diverse rispetto alla vinifera da cui ha avuto origine, sia perché in conseguenza del “linkage” l’introduzione della resistenza non è mai completamente disgiunta da altre peculiarità del donatore, sia perché con i reincroci si aumenta l’omozigosi e possono manifestarsi caratteri recessivi non espressi nel vitigno di partenza.
Tutto ciò premesso, è doveroso riconoscere che alcune accessioni ottenute con l’incrocio ricorrente e omologate con il nome aggettivato del genitore “nobile” stanno dimostrando comportamenti riconducibili a quelli della cultivar di Vitis vinifera da cui derivano. Paradossalmente, peraltro, una varietà interspecifica che si comporti in modo simile alla vinifera da cui abbia ereditato fino al 90-95% del genoma può anche essere vista in termini negativi sul piano pratico, poiché quasi certamente subirebbe allo stesso modo del genitore europeo gli effetti penalizzanti dei lunghi periodi di siccità e delle alte temperature estive connesse ai cambiamenti climatici.
Per aumentare in un ibrido la quantità di DNA proveniente dalla Vitis vinifera e ridurre i caratteri ereditati dalle altre specie, un’ipotesi alternativa al reincrocio con una singola varietà europea potrebbe essere l’incrocio del donatore di resistenza con 5-6 varietà europee di volta in volta diverse. Questo metodo avrebbe il vantaggio di aumentare l’eterozigosi e di accrescere la possibilità di selezionare ibridi meno sensibili alle malattie fungine e nello stesso tempo più idonei a fronteggiare i cambiamenti climatici in atto, da utilizzare come cultivar accessorie per correggere e migliorare il comportamento dei vitigni tradizionali a fronte dei problemi posti dalla siccità e dagli eccessi termici.
Quest’ultima linea di ricerca è stata certamente attuata, ma molti programmi italiani di miglioramento genetico sono stati impostati sul reincrocio del donatore di resistenza con singole varietà, scelte tra le più tipiche di alcune regioni (Glera, Corvina, Lambruschi, Trebbiani, Sangiovese, Montepulciano, ecc. ecc.). Alle nuove accessioni, che sono ora in dirittura di arrivo e che non possono che essere in qualche modo diverse dalla vinifera di partenza, dovrebbero essere correttamente attribuiti nomi di fantasia, ma recentemente sono state diffuse notizie sulla imminente omologazione di vitigni ibridi descritti come “Glera resistente” o come “Sangiovese resistente”. Ciò lascia presumere che per le nuove selezioni sia già in atto una notevole spinta commerciale a battezzarle con nomi “ufficiali” che richiamino i genitori “italici”.
Se questo avverrà e se il competente Comitato del Mipaaf (oggi Masaf) accoglierà tali richieste, si verificherà un palese contrasto ed un pericoloso equivoco con gli eventuali “cloni” di Vitis vinifera resistenti che potranno essere ottenuti con le Tea, che avranno, come già ricordato, il diritto legale di mantenere il nome della varietà, con la qualifica aggiuntiva della caratteristica indotta dalla mutazione (ad es. “Glera resistente” o “Sangiovese resistente”).
In attesa che i cloni Tea siano in grado di ridurre del 50% l’uso dei presidi sanitari come voluto dalla Ue, ben vengano i vitigni ibridi resistenti prodotti utilizzando i vitigni delle diverse regioni, ma è auspicabile che siano battezzati ed omologati in modo da non creare equivoci e in modo che anche in futuro non vi sia confusione tra “cloni” resistenti di vinifera e “varietà” interspecifiche resistenti.