Il dubbio espresso nel titolo fa riferimento a talune convinzioni diffuse negli ambienti cattolici, anche se non solo, e che autorizzano una qualche perplessità, perché poco congruenti come cercherò di spiegare. Nel 2019, Padre Fernando de la Iglesia Viguiristi in Civiltà Cattolica (Quaderno 4058, 2019, pag. 163-176) scriveva testualmente: "La fame scaturisce in primo luogo dalla povertà. La sicurezza alimentare delle persone dipende essenzialmente dal loro potere di acquisto e non dalla disponibilità fisica di alimenti, e per questo è molto diffusa nei Paesi poco o male sviluppati.” Dunque, con questa logica che è solo parzialmente vera, parrebbe che la produzione di cibo sia una variabile di scarsa rilevanza; ad essere importante sarebbe invece uno sviluppo equilibrato che produca ricchezza e che questa sia ben distribuita. Forse per questo, lo stesso autore suggerisce: “Va ribadito innanzitutto che nel mondo il cibo è sufficiente per tutti, …la chiave sta nel fatto che c’è un accesso disuguale agli alimenti necessari.”
Anch’io, peraltro, ribadisco che anche questo è solo in parte vero; infatti, gran parte degli 800 milioni di affamati sono nei Paesi a basso reddito (riguardanti oltre 3 miliardi di persone) dove il 65-70% della popolazione è rurale e gli alimenti sono di loro produzione (trattandosi di sussistenza, in teoria, non ne dovrebbero acquistare e l’eventuale fame è solo frutto di insufficiente produzione!). Dunque, pur consapevole della semplificazione, credo risulti assodato che la produzione di cibo rimane fondamentale – anche per rispondere alla crescente urbanizzazione - benché l’equa distribuzione debba essere attentamente perseguita.
Se ciò è senza dubbio vero, non meno vera è la necessità di comprendere quale sia il rapporto fra produzione di cibo (agricoltura) e integrità del pianeta (ecologia), avendo peraltro chiaro che il cibo è in relazione con la popolazione e che questa impatta sul pianeta – specie se si aspira a far si che ogni nuovo nato abbia una buona prospettiva di vita - in molti altri modi: materiali delle fognature con deiezioni, detersivi ecc., sottrazione di risorse di ogni genere come minerali, combustibili fossili, legname, acqua ecc., contaminazione di atmosfera, acque e suoli con sostanze di varia origine (industria, mezzi di trasporto, condizionamento termico degli edifici ecc.), infine il più temuto in quanto causa di alterazione del clima, cioè le emissioni di gas ad effetto serra (GHG). Non trascuriamo dunque il ruolo svolto dal numero di abitanti della terra e non limitiamoci a considerarne i comportamenti individuali, anche se spesso deprecabili. Relativamente al cibo, credo sia utile precisare che 2000 anni fa gli abitanti del pianeta erano stimati in 170 milioni e la superficie di terre occupate pari a 370 milioni di ha (2,8% del totale); ad inizio 1900 la popolazione era già 1,5 miliardi e la superficie agricola 1,3 miliardi di ha (10%), mentre oggi i valori sono rispettivamente 8,0 miliardi e 4,8 miliardi di ha (36%), di cui 1,6 coltivati (12%). Di tutta evidenza è dunque la seguente considerazione: più la popolazione aumenta, maggiore è la superficie necessaria per produrre il cibo richiesto (in verità non solo cibo, ma anche altri beni: cotone e altre fibre tessili, lavoro, fertilizzanti organici ecc.), ma sempre minore ne è la disponibilità complessiva per ciascun essere umano: sui 13,3 miliardi di ha non insistono più 170 milioni, ma 8 miliardi di persone. In realtà, è tuttavia necessaria una precisazione: la stretta relazione fra aumento della popolazione e della superficie agricola, si è fermata al 1960; da allora la popolazione che era 3 miliardi è aumentata di 2,7 volte (8 miliardi), mentre la superficie agricola è passata da 4,6 a soli 4,8 miliardi di ettari. Quanto sia straordinario quest’ultimo fatto, si può comprendere da quanto avvenuto in Cina fra il 1961 e il 2000, la superficie coltivata è rimasta pressoché invariata a 93 milioni di ha, mentre la produzione di cereali è cresciuta da 91 a 390 milioni di tonnellate.
In questo senso ha quindi ragione Padre Viguiristi di Civiltà Cattolica: il cibo nel mondo è sufficiente, ma ciò vale solo nei Paesi più o meno sviluppati e tecnicamente capaci di aumentare la produttività delle coltivazioni (e allevamenti) di 4-6 volte grazie alla tanto “vituperata” intensificazione agricola. A meravigliare è semmai il fatto che, a questo straordinario risultato, non abbia fatto seguito il meritato riconoscimento per l’agricoltura intensiva in quanto la sola via per tamponare il continuo aumento di consumi alimentari (più bocche e più esigenti), senza accrescere la deforestazione; viceversa la si è fatta diventare il “capro espiatorio” degli indubbi problemi ambientali emersi negli ultimi decenni – peraltro massimamente attribuibili a cause diverse dal sistema agro-alimentare - anziché puntare a migliorarla (come raccomanda la FAO per renderla sempre più sostenibile).
Per meglio comprendere l’atteggiamento dominante a quest’ultimo riguardo, da cattolico, richiamo alcune posizioni largamente diffuse in seno alla Chiesa cattolica; in particolare citando 3 pronunciamenti importanti apparsi in occasione del pre-vertice al G20 del luglio 2021:
- Papa Francesco: “…In questo processo, i piccoli agricoltori e le famiglie agricole devono essere considerati attori privilegiati. La loro conoscenza tradizionale non deve essere trascurata o ignorata, mentre il loro coinvolgimento diretto consente loro di comprendere meglio le loro reali esigenze e priorità.”
- Suor Smerilli (Segretario Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale della Santa Sede): “Infine, crediamo si debba valorizzare e rispettare i saperi ancestrali (per esempio le tribù indigene che raccolgono il loro cibo nelle foreste o i pastori nomadi). Abbiamo bisogno di un'interazione forte e rispettosa tra scienza e conoscenza tradizionale, che sono entrambi pilastri fondamentali nei sistemi alimentari. … Nel prendere decisioni alla luce di questi principi, siamo orientati verso azioni che sostengono un modello rigenerativo di agricoltura, e verso sistemi alimentari ispirati all'agro-ecologia che favoriscono sia le persone che il pianeta.”
- Card. Turkson (già Prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale della Santa Sede e ora Cancelliere delle Accademie Pontificie delle Scienze), che si è così espresso:
• “Gli indigeni hanno saputo proteggere le conoscenze che hanno permesso la perpetuazione dei loro sistemi agroalimentari nel tempo…e queste conoscenze possono essere utilizzate in quei territori con povertà alimentare”;
• “…l’utilizzo delle tecniche tradizionali si è dimostrato fondamentale per la vitalità e la resilienza delle colture e delle specie alimentari indigene, mentre l’introduzione di specie straniere, accompagnate da fertilizzanti, pesticidi, erbicidi, compromette gravemente questa vitalità e l’agricoltura tradizionale locale…”;
• E così conclude: “…questi metodi (chimici) sono inefficaci o addirittura dannosi su terreni fertili, colture sane e sementi piccole e locali. Tuttavia, gli interessi economici guidano alcune di queste pratiche ecocide!”
Evidente, dunque, che in seno alla Chiesa cattolica siano molto diffuse posizioni favorevoli alla cosiddetta “agricoltura naturale” o “biologica”; cui si aggiunge il sostegno per un approccio riassumibile nella parola d’ordine ormai dominante: l’“agro-ecologia”, equiparata alla “ecologia integrale” che Papa Francesco ha coniato nella Laudato si’: “ecologia integrale è un’operazione complessa che si basa sul far interagire l’ecologia nelle sue varie dimensioni: l’ecologia ambientale (analisi dell’ecosistema naturale) con l’ecologia economica (analisi del sistema produttivo/distributivo), con l’ecologia socio-culturale (analisi del sistema istituzionale che regola le relazioni umane sulla base dei principi di sussidiarietà e di solidarietà), con l’ecologia umana (centralità della dignità umana), adottando una « visione più integrale e integrante » (LS, 141).
Di qui, probabilmente, la circostanza che due famosi attivisti ambientali: Carlin Petrini fondatore di Slow Food e Vandana Shiva attivista indiana, siano spesso fra i relatori dell’iniziativa di punta della Santa Sede, cioè “The Economy of Francesco”. Lo conferma anche un articolo di Vandana Shiva, ospitato da l’Osservatore Romano del 3 settembre 2022, nel quale afferma: “…hanno il rapporto più stretto con la natura e che la proteggono attraverso l’agricoltura rigenerativa, l’agro-ecologia, i cui principi ruotano attorno alle relazioni benefiche tra piante, animali, microrganismi e agricoltori; che interagiscono tra loro e con l’ambiente.”.
Per meglio inquadrare la parola agro-ecologia, aggiungo quanto scritto da un “maestro” della stessa: M.A. Altieri, and C.I. Nicholls. 2020. (Agroecology: challenges and opportunities for farming in the Anthropocene. Int. J. Agric. Nat. Resour. 204-215). “L'agro-ecologia indica la strada verso il ripristino della logica ecologica in agricoltura promuovendo principi e pratiche che portano a sistemi agricoli più ricchi di biodiversità che sono più resilienti a focolai di parassiti, pandemie, sconvolgimenti climatici e altri shock futuri. Nello specifico:
. Un principio guida in agro-ecologia è imitare gli ecosistemi naturali riorganizzando gli agroecosistemi sulla base dei principi di diversità, sinergia, efficienza e riciclaggio;
. Gli agro-ecologi promuovono la diversificazione delle colture (policolture, rotazioni, sistemi agroforestali e integrazione colture-bestiame-pesce) come strategia agro-ecologica efficace per reintrodurre la biodiversità negli agroecosistemi, che a sua volta fornisce una serie di servizi ecologici agli agricoltori, come fertilità del suolo, regolazione dei parassiti e delle malattie, impollinazione, migliorando al contempo l'autonomia, la resilienza e la sovranità alimentare;
. Il sovescio, le colture di copertura e la pacciamatura aumentano le rese di mais negli ambienti marginali da 1–1,5 t/ha–4 t/ha. Ciò è significativo in una regione in cui le aziende agricole su piccola scala producono tra il 50 e il 70% del cibo, ma controllano solo il 30% della terra arabile;
. L'agro-ecologia abbraccia anche una dimensione sociopolitica, sostenendo la giustizia sociale e la trasformazione radicale del sistema alimentare controllato dalle grandi imprese.
A questo punto è a mio parere indispensabile chiarire quello che considero un equivoco e che giustifica una sorta di incomprensione; da un lato sono il primo a riconoscere validità a un approccio di tipo olistico (considerare all’unisono le interazioni tra l'ambiente naturale, la società e le sue culture, le istituzioni, l'economia). D’altro canto, mi chiedo quale possa essere la logica di condizionare le scelte tecniche – volte alla produzione di cibo (agricoltura) salvaguardando il pianeta (ecologia) – per conseguire finalità indubbiamente rilevanti (giustizia sociale, rispetto delle tradizioni ecc.), ma che potrebbero essere ugualmente perseguite ricorrendo a scelte scientificamente ineccepibili. Non per nulla, in una recente relazione all’Accademia dei Lincei (in collaborazione con Prof. Tabaglio), circa la necessità di favorire lo sviluppo rurale dei PBR (Paesi a Basso Reddito), ci siamo così espressi: “Questa innovazione implica peraltro un supporto che i PAR debbono ai PBR;…Tuttavia, non meno rilevante è il fatto che questa indispensabile innovazione non si riesce a diffondere efficacemente – soprattutto in Africa – senza un approccio di partenariato vero e proprio dei PAR Paesi ad Alto Reddito) nei confronti dei PBR; quindi, non limitandosi agli aspetti tecnico-finanziari, ma estendendoli a quelli socio-antropologico-culturali e coinvolgendosi in prima persona. …peraltro, debbono contribuire i PAR, purché il loro modo di agire renda questi popoli attori – in quanto capaci e responsabili - del proprio cambiamento verso lo sviluppo.”
Pur comprendendo che non tutti siano disponibili a condividere questa che considero una scelta strategica, cioè quella di perseguire il “matrimonio” fra scienza e tradizione (con risvolti etico-sociali), personalmente non vedo alternative se davvero, e con onestà intellettuale, si ha contemporaneamente l’obiettivo della sicurezza alimentare dell’umanità e nondimeno della salvaguardia del pianeta. Al contrario, reputo del tutto fuorvianti, se non addirittura dannosi, gran parte dei presupposti agro-ecologici circa il rapporto fra agricoltura e natura, in quanto palesemente contrari alla innovazione. Essi avrebbero l’ovvia conseguenza di ridurre la produttività nei Paesi più o meno sviluppati (come peraltro auspica il Green Deal dell’EU) e di impedire il conseguimento del suo sostanziale aumento, indispensabile in quelli a basso sviluppo; il che si tradurrebbe in un aumento della superficie necessaria - da prendere ovviamente dalle foreste e altre aree ora naturali – quindi l’opposto degli obiettivi dichiarati…come volevasi dimostrare!
Questo giudizio, apparentemente perentorio, parte dalla constatazione che le posizioni agro-ecologiche richiamate in precedenza si basano su presupposti sbagliati, eccezion fatta per i principi socio-antropologici-colturali viceversa condivisibili. Doveroso appare quindi il tentativo che farò per motivarlo, partendo dall’irragionevole rifiuto della scienza e della tecnica, anche se correttamente sviluppate e applicate, alla luce dell’etica. Infatti, è nella stessa Laudato si’ che Francesco le riconosce, sia pure con le giuste riserve: “Desidero recepire qui l’equilibrata posizione di san Giovanni Paolo II, il quale metteva in risalto i benefici dei progressi scientifici e tecnologici, che «manifestano quanto sia nobile la vocazione dell’uomo a partecipare responsabilmente all’azione creatrice di Dio», ma che al tempo stesso ricordava «come ogni intervento in un’area dell’ecosistema non possa prescindere dal considerare le sue conseguenze in altre aree».
Per non dilungarmi troppo, farò solo un paio di esempi di patenti errori che, inevitabilmente, condizionano le scelte successive:
- Un primo esempio riguarda la capacità produttiva delle piccole aziende familiari, enfatizzata da Altieri, ma che già nella Laudato si’ (129) è presente: “Per esempio, vi è una grande varietà di sistemi alimentari agricoli e di piccola scala che continua a nutrire la maggior parte della popolazione mondiale, utilizzando una porzione ridotta del territorio e dell’acqua ...”. In particolare, parrebbe si voglia far passare l’idea che siano le piccole aziende familiari (quelle con meno di 2 ha ciascuna) a produrre il 70-80% del cibo; purtroppo trattasi di un banale equivoco nato da errata interpretazione del documento FAO del 2014 (“The state of food and agriculture: innovation in family farming” nell’anno dell’agricoltura familiare). In realtà, si è travisato il termine azienda familiare (nel documento FAO) con quello di piccola azienda familiare; per cui è vero che le aziende familiari producono l’80% del cibo mondiale, ma sono di tutte le dimensioni e occupano l’80% della superficie coltivata. Al contrario, le piccole aziende familiari (ve ne sono 480 milioni nel mondo), occupando poco più di 500 milioni di ettari, cioè 1/3 delle terre arabili, non potrebbero in alcun modo produrre gran parte del cibo (specie considerando il fatto che si caratterizzano per una agricoltura di sussistenza). Ben vengano quindi le aziende familiari, ma con dimensioni e potenzialità tecniche che consentano loro livelli adeguati di produttività.
- Un secondo esempio – che reputo gravissimo - riguarda la tendenza a relativizzare il valore della scienza; in particolare, già si trova nelle posizioni espresse da Suor Smerilli: “…un'interazione forte e rispettosa tra scienza e conoscenza tradizionale, che sono entrambi pilastri fondamentali nei sistemi alimentari… che parrebbe equipararle, quasi a richiamare il concetto di “uno vale uno” che l’esperienza della COVID-19 pareva aver decisamente eclissato. Non meno rilevanti le affermazioni del Card. Turkson: “…questi metodi (chimici) sono inefficaci o addirittura dannosi su terreni fertili, colture sane e sementi piccole e locali. Tuttavia, gli interessi economici guidano alcune di queste pratiche ecocide!”. Infine, evidente l’analoga posizione antiscientifica contenuta nella definizione di agro-ecologia dell’Altieri: “principio guida in agro-ecologia è imitare gli ecosistemi naturali riorganizzando gli agroecosistemi sulla base dei principi di diversità, sinergia, efficienza e riciclaggio”.
Si tratta chiaramente di richiami alla natura e alle conoscenze “indigene” che sicuramente meritano rispetto, ma solo se non contraddicono, o peggio prevalgono sulle conoscenze scientifiche. Circa la natura, come riferimento per l’agricoltura, appare quantomeno anti-storico; sin dai tempi di Caino coltivatore e Abele pastore, richiamati dalla Genesi, le scelte sono state ben diverse da quelle di natura: frutti e/o semi selezionati nel tempo per essere graditi all’uomo, ma sempre meno adatti alla disseminazione naturale, lavorazione del suolo pre-semina e contenimento delle erbe spontanee per favorire il seme gettato dall’uomo (si veda la parabola del seminatore, Mt 13, 1-23, dove il frutto si ha solo nella terra buona perché preparata e mantenuta tale dal seminatore), progressiva espansione dei processi di conservazione e trasformazione dei prodotti agricoli per avere cibo appropriato durante “tutto l’anno” e non solo nelle stagioni propizie per natura. Ma il progresso umano non si è mai fermato e, sia pure più tardivamente, sono venuti i secolari tentativi di mantenere-ripristinare la essenziale fertilità dei suoli coltivati; già presenti in forme embrionali in epoca romana e di cui parla Columella (maggese, sovescio, letame), furono poi perfezionati nei secoli relativamente vicini a noi (dal ‘500 all’‘800).
Benché non vi sia nulla, o ben poco, in comune con i processi naturali “tout-court”, in tutto questo millenario processo di miglioramento dell’agricoltura (se non il fatto che l’uomo ha approfittato a proprio favore di fenomeni naturali favorevoli e della loro conoscenza), tutto ciò è considerato “naturale” dalla pubblica opinione: peccato che sia stato la causa principale di distruzione della natura (nel senso di occupazione sino al 36% della superficie asciutta), senza risolvere il problema della fame (ricordate cosa scriveva Malthus a fine ‘700?). Viceversa, con i medesimi obiettivi di miglioramento dei processi produttivi agricoli, negli ultimi 2 secoli è avvenuta una vera e propria rivoluzione; in quest’ultimo caso, a cambiare – tanto per le coltivazioni che per gli allevamenti animali – sono state la rapidità e soprattutto l’esponenziale crescita delle conoscenze scientifiche e tecniche (fra fine ‘800 e nel ‘900). Come ben noto, essa ha riguardato genetica, difesa di piante e animali, processi riproduttivi, potenziamento della capacità fisica dell’uomo con la meccanizzazione, gestione dei processi produttivi, ma anche di trasformazione-conservazione ecc. Che questa rivoluzione si voglia o meno aggettivare con “verde”, rimane il fatto che essa soltanto ha consentito, esclusivamente grazie alla scienza (ove disponibile), di produrre il cibo necessario senza ulteriormente intaccare le superfici non ancora destinate all’agricoltura (come ampiamente mostrato in precedenza per gli ultimi 60 anni: popolazione quasi triplicata e superficie agricola “invariata”). Ed ora il paradosso…tutto ciò non è più “naturale” – come se in precedenza lo fosse - ma poi si enfatizzano le “manipolazioni” degli scienziati e soprattutto delle multinazionali, quindi è “meglio” (per assurdo) conservare la fame e distruggere la natura (come i metodi agro-ecologici paiono, sia pure inconsapevolmente, comportare).
Prima di concludere, pur comprendendo una qualche ragione alla base di questo atteggiamento tipicamente “luddistico”, vorrei nuovamente esprimere il mio dissenso con un ulteriore esempio che dovrebbe “aprire le menti”, almeno quelle non ideologizzate; esso nasce dalle conseguenze dei recenti tragici avvenimenti del conflitto Russia-Ucraina: i PBR, dove prevalgono i metodi indigeno-naturali, non riescono evidentemente a produrre quanto loro necessario; infatti, debbono ricorrere alle “AGRICOLTURE INTENSIVE” (Ucraina e Russia ... appunto!).
Ugualmente prima di concludere, credo meriti essere richiamato un altro errore che deriva dal non conoscere, o dal rifiutare, che la sostenibilità è multivalente e non “monocorde”: ambiente, ambiente, ambiente…; quattro sono infatti le “gambe” che la sostengono e tutte da rispettare: economia, socio-etica, ecologia, ma anche nutrizione-salute per l’uomo (quest’ultima, la meno nota, implica che si producano quantità sufficienti di tutti gli alimenti, vegetali e animali, al fine di una dieta equilibrata).
A questo punto, è possibile tentare una sorta di conclusione richiamando semplicemente i punti essenziali di quanto detto in precedenza, non prima di aver tuttavia premesso che la sufficiente disponibilità di cibo nel mondo non è mai stata un antefatto, ma una dura conquista:
- Si deve anzitutto aver presente che la causa principale degli accresciuti consumi/impatto risiede nel n° di abitanti, oltre che nelle eccessive pretese di ognuno di noi; di qui il richiamo alla paternità responsabile di San Paolo VI nella Humanae Vitae (e lo scrive chi ha cinque figli);
- L’agricoltura ha per definizione regole diverse da quelle della natura, ma ciò non significa disattenderne il rispetto… quanto più possibile;
- A salvaguardare la natura (pianeta) non sono le scelte compromissorie fra natura e agricoltura, che non servono a nessuna delle due, ma piuttosto le tecniche avanzate che permettono un aumento della produttività e quindi di avere il cibo necessario con minore superficie (lasciando alla natura ciò che è ancora della natura… con la sua biodiversità). Da notare che in tal modo, minori sarebbero anche le emissioni di GHG, sia per il mancato ricorso a nuove superfici da coltivare (cambio d’uso dei suoli che contribuisce al 10% circa dei GHG mondiali) e sia per la migliore efficienza delle produzioni (da cui calo deciso dei GHG per kg di prodotto);
- Per aumentare la produttività esiste una sola via (generale): l’agricoltura intensiva sostenibile (come auspica la FAO) che presuppone l’innovazione, ma che a sua volta implica conoscenze, strutture e infrastrutture ecc. che non ovunque sono disponibili;
- Errato sarebbe, tuttavia, dedurre che le piccole aziende familiari siano “tagliate fuori” dall’innovazione e che per esse esista solo l’ipotesi dell’agro-ecologia che vorrebbe perpetuare le conoscenze tradizionali (“indigene”). L’esperienza personale in Africa ed India, fa pensare diversamente, ma a condizione che “qualcuno” (esempio Chiese e ONG, ma non solo poiché – secondo AGRA nel “Africa Agricultural Status Report 2022” – il compito sarebbe del Governo del Paese) prenda a cuore non solo scuole ed ospedali, ma anche Centri di sviluppo rurale che rendano “lecito” quel matrimonio fra tradizione e innovazione che solo garantirebbe loro un futuro migliore;
- Con ciò intendo confermare che grande attenzione si deve attribuire anche agli aspetti socio-culturali-antropologici, purché – in totale dissonanza con l’agro-ecologia – non vengano aprioristicamente rifiutati gli strumenti scientifici, neppure nei PBR. Afferma infatti Diana Battaggia di UNIDO ITPO Italy, nella conferenza online “Safer now: una chiamata all'azione per il clima che cambia” del 15 luglio 2022: "Innovazione e sostenibilità sono un binomio inscindibile che gioca un ruolo centrale per rispondere alle varie sfide di oggi… e per sbloccare il potenziale non sfruttato dei Paesi emergenti, trasformando tali sfide in opportunità". Semplicemente aggiungo che gli interventi debbono essere proposti – possibilmente con forme di partenariato “onesto” dei PAR - in modo appropriato e puntando a “fare con loro” e non già a “fare per loro” che purtroppo è dominante e rimane una forma di colonizzazione mascherata.
L’auspicio è dunque che quanto illustrato possa dar luogo a un qualche ripensamento, in quanti hanno sinora dato credito ad approcci di tipo ideologico; in particolare, per constatare che scienza e tecnica non sono nemici degli strati meno abbienti e delle popolazioni meno sviluppate, ma viceversa strumenti che – ben usati e con attenzione all’etica – costituiscono la sola ed unica via per garantire la sicurezza alimentare a tutti e la salvaguardia di quanto rimane della natura sul pianeta (come è ormai ampiamente dimostrato e da decenni).
(Foto: COSPE)