La FAO, con i rapporti “Livestock’s Long Shadow” del 2006 e del 2019, ci ha informato che il contributo al riscaldamento globale attribuibile alla produzione di gas serra da parte degli allevamenti animali è dell’ordine del 14% della produzione totale di origine antropica. Bisogna, ovviamente, fare qualcosa per limitare i danni al nostro pianeta anche agendo sugli altri settori come i trasporti aerei, navali e terrestri, la produzione di energia da combustibili fossili, l’uso smodato dell’energia per il riscaldamento e la climatizzazione domestici ed industriali o le altre attività agricole, fra cui la risicoltura in particolare. Ognuno agisca nel proprio ambito, magari in maniera proporzionale alle percentuali di nocività di ciascun settore. Ma c’è senza dubbio un’attenzione privilegiata nei riguardi delle attività zootecniche, spesso dipinte come le maggiori responsabili del problema da parte di alcune parti dell’opinione pubblica e dei media.
Leggendo qua e là mi sono capitati un paio di articoli interessanti sull’argomento produzioni zootecniche, impatto ambientale e possibili interventi migliorativi della situazione. Fra questi la rassegna “Why and how to regulate animal production and consumption: the case of the European Union” di Hervé Guyomard et al. (Animal, 2021, 15(1), 1000283).
L’articolo prende spunto dal “Green Deal” lanciato dalla Commissione Europea nel 2019 che, fra le altre cose, ci ricorda come ridurre la produzione e il consumo di carne siano auspicabili, sia nei riguardi della salute dei consumatori, sia per la salvaguardia delle risorse naturali attraverso la limitazione delle produzioni di metano enterico dai ruminanti.
Alcuni Paesi si muovono nella direzione indicata dal citato “Green Deal”. In Olanda un piano governativo per ridurre le emissioni di gas serra, proposto per seguire le indicazioni europee attraverso la riduzione del numero e delle dimensioni degli allevamenti, ha scatenato numerose proteste. Si sono avute recentemente delle dimostrazioni di piazza contro il governo: per seguire le indicazioni del piano alcuni allevatori dovrebbero addirittura chiudere. Infatti, sembra che il citato piano operativo sia inattuabile in pratica, soprattutto sotto l’aspetto economico. La protesta, che ha avuto luogo il 27 giugno scorso, ha visto gli agricoltori occupare con i trattori diverse sedi autostradali con code di decine di chilometri di veicoli. La questione è tuttora aperta a livello globale e chi sa per quanto tempo andremo ancora avanti a discuterne nei summit dei grandi del mondo senza concludere un gran che, come è successo finora.
C’è un’altra notizia che vale la pena di segnalare, che questa volta riguarda la Svezia: sugli scaffali dei supermercati la carne bovina prodotta con la riduzione del 90% di metano enterico spunta prezzi più alti. La riduzione delle “flatulenze” si ottiene somministrando un prodotto che, a detta della ditta svedese che lo commercia, “dopo molti anni di ricerche, si è dimostrato sicuro per gli animali e per l’uomo”.
Onestamente, devo ammettere di non essere riuscito a saperne molto su questo prodotto, che dovrebbe funzionare deprimendo la metanogenesi attraverso l’alterazione dell’equilibrio fra microrganismi nel rumine. Se così è, devono essere riformulate le diete dei ruminanti, soprattutto nei riguardi delle frazioni fibrose, con tutto quello che ciò comporta in termini economici e organizzativi. Si usa dire che i ruminanti, a differenza dei monogastrici, non sono in competizione alimentare con noi in quanto sono in grado di utilizzare gli alimenti ricchi di fibra come i foraggi, praticamente privi di valore alimentare per l’uomo, con la inevitabile conseguenza della produzione del tanto deprecato metano. Se ridurre la produzione enterica di metano significa costringere i ruminanti a divenire monogastrici, allora forse è meglio agire in altre direzioni, ad esempio cominciare veramente a fare più attenzione a moderare le fonti di energia non rinnovabili ed a usare meglio quelle rinnovabili.