La crisi economica e politica che in queste settimane sta sconvolgendo lo Sri Lanka deve essere occasione di riflessione. Molti sono i motivi che hanno portato allo scenario attuale: dalla pandemia che ha azzerato il turismo nel Paese e quindi l’afflusso di valute forti, alla gestione politica degli ultimi anni che ha portato a scelte discutibili.
Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’obbligo, su suggerimento di Vandana Shiva, di convertire tutta l’agricoltura del Paese a biologico, bloccando le importazioni di fertilizzanti di sintesi e impedendo l’utilizzo di agrofarmaci per la protezione dei raccolti. Le produzioni sono crollate, l’industria del tè - di cui il Paese era ricco esportatore - è in ginocchio, molte aziende agricole sono sul lastrico e non riusciranno né a pagare i fornitori per l’annata agraria passata, né ad investire su quella attuale.
La Commissione Europea si propone di portare l’Unione ad essere climaticamente neutra entro il 2050. Per arrivare a questo obiettivo ha redatto il Green Deal, una tabella di marcia i cui ambiziosi obiettivi non si possono non condividere. Si ha però, talvolta, la sensazione che siano stati scambiati gli obiettivi con i mezzi per raggiungerli e che sia scarsa la disponibilità dei politici europei ad una valutazione basata sui dati e non sulle suggestioni ideologiche.
All’interno del Green Deal troviamo in particolare due Strategie da attuarsi entro il 2030: quella sulla Biodiversità e quella nota come Farm to fork, “dal campo alla forchetta”. Quest’ultima si propone di arrivare ad una riduzione dell’uso di agrofarmaci del 50%, di fertilizzanti del 20%, di antimicrobici negli allevamenti e in acquacoltura del 50%, e di destinare il 10 % della terra coltivata ad usi non produttivi. Inoltre, intende spingere l’agricoltura biologica per farla passare dall’attuale 7,5% al 25%. Lodevolmente, intende fare guerra agli sprechi lungo tutta la filiera produttiva, fino alla fase del consumo finale, e combattere le cattive abitudini alimentari. Punta, inoltre, a promuovere cambi di dieta volti ad aumentare il consumo di proteine vegetali e ridurre quello di proteine animali.
Le politiche europee e nazionali devono tenere conto di queste strategie e contribuire a perseguirne gli obiettivi; lo si vede già nella Politica Agricola Comunitaria 2023-27, approvata a fine 2021, e nei Piani Strategici Nazionali che gli Stati Membri stanno adottando per applicarla.
La Commissione, però, non ha condotto alcuna valutazione d’impatto ex-ante per la strategia Farm to fork. Solo successivamente alla sua approvazione sono stati pubblicati degli studi da parte del Joint Research Center europeo e dell’Università olandese di Wageningen.
Ma il primo ad uscire è stato lo studio dello USDA, il ministero dell’agricoltura statunitense, che ha valutato l’impatto che la riduzione degli input produttivi sopra elencati avrà sulla sicurezza alimentare ed economica. Lo ha fatto ipotizzando tre scenari di applicazione: 1) solo nell’UE; 2) UE e Paesi partner commerciali dell’UE; 3) tutto il mondo. Le conclusioni sono che tutti e tre gli scenari ipotizzati impattano sugli agricoltori europei con diminuzioni della produzione dal 7 al 12% e con un calo della loro competitività sia nel mercato interno che in quello estero. I prezzi del cibo aumenteranno a livello mondiale del 9% (scenario 1) fino al 89% (scenario 3). Il welfare sociale mondiale si ridurrà di un valore tra i 96 e i 1100 mld $ a seconda dello scenario. Le persone con problemi di accesso al cibo aumenteranno di 22 mln nella migliore delle ipotesi; di 185 mln nella peggiore. Anche il PIL europeo ne risentirebbe con un calo che, persino nello scenario di applicazione più contenuta, il numero 1, è stimato pari a 71 mld $, portandolo a rappresentare il 76% del calo del PIL mondiale.
Per la simulazione, gli esperti dello USDA hanno usato un modello che divide il mondo in 18 zone agroecologiche, esamina i mercati potenziali e gli impatti delle Strategie sull’economia, tiene anche conto della competizione nell’uso della risorsa terra fra agricoltura e altri settori. L’arco temporale per la valutazione delle conseguenze è di medio periodo: 8-10 anni. Poi sono stati valutati gli impatti sulla sicurezza alimentare, intesa come disponibilità di cibo, stimando le variazioni di PIL e di prezzo degli alimenti. Gli scenari 2 e 3 possono apparire un esercizio di modellistica, ma è la Commissione stessa a proporre di usare le politiche commerciali comunitarie e ogni sforzo internazionale per supportare e promuovere questa visione del sistema agroalimentare, suggerendo di espanderla anche oltre l’UE: parla infatti di “global transition”.
Le conclusioni di tutti e tre gli studi citati sono che l’applicazione della Farm to fork all’agricoltura europea porterà a cali produttivi del 10-20%, aumento dei prezzi, riduzione del reddito degli agricoltori. A questo va aggiunto l’impatto che questa strategia europea avrà sugli altri Paesi: la riduzione delle emissioni che si otterrebbe in Europa verrà spostata su altre zone produttive, che dovranno produrre per i consumatori europei ciò che gli agricoltori europei non potranno più fare e l’Unione diventerà ancora più dipendente dalle importazioni. Non è una novità: già oggi molta produzione alimentare europea, per esempio il famoso Made in Italy delle filiere zootecniche di formaggi e prosciutti, si affida in buona parte all’importazione di soia e mais esteri, spesso ogm. La beffa in quest’ultimo caso è che gli agricoltori europei, con l’eccezione degli spagnoli, non possono produrre ciò che i loro clienti comprano in gran quantità dall’estero.
Tornando all’esportazione di esternalità negative, l’Europa è maestra: dal 1991 a oggi, secondo studi pubblicati, le foreste in EU sono aumentate di 12 mln di ettari e diminuite contemporaneamente di una superficie quasi uguale nei Paesi principali fornitori di derrate per l’Europa. Siamo quindi corresponsabili anche di ciò che avviene al di fuori del nostro territorio.
La FAO ha calcolato che il 40% dei raccolti mondiali viene perso ogni anno a causa di insetti e malattie: uno spreco intollerabile di terra, semi, acqua, lavoro e altri fattori produttivi. Per questo l’ONU ha proclamato il 2020 Anno internazionale della protezione delle piante, per richiamare l’attenzione sull’importanza di promuovere ogni strategia utile a proteggere le coltivazioni e ridurre gli sprechi in campo dovuti alle avversità.
L’intensificazione sostenibile è proprio questo: poter utilizzare ogni strumento a disposizione per la protezione colturale e per la gestione delle risorse per produrre nel modo più sostenibile possibile. Tra i più efficaci c’è il miglioramento genetico: la protezione delle colture tramite le biotecnologie sta dando interessanti risultati, ad esempio, per la riduzione o eliminazione di trattamenti insetticidi, grazie alle piante cosiddette Bt. È una tecnica che si sta diffondendo in Africa e in alcuni Paesi asiatici su diverse varietà locali, oltre che nel continente americano per la protezione del mais dagli insetti. In Europa, con l’eccezione della Spagna, queste tecniche non sono accettate.
Anche le nuove tecniche di editing del genoma, che permettono miglioramenti precisi ed efficaci, al momento non sono consentite per la coltivazione perché considerate ogm. Le associazioni dei produttori in agricoltura biologica si sono già dette contrarie a queste nuove tecniche, a mio avviso non fornendo un buon servizio ai propri associati: chi più di un agricoltore biologico potrebbe beneficiare di piante che non hanno bisogno, ad esempio, di un trattamento fungicida per proteggersi da una malattia? Lo scopo dell’agricoltura biologica dovrebbe essere quello di ridurre l’impatto ambientale e proteggere la salute dei consumatori, appare pertanto incomprensibile il rifiuto delle biotecnologie, strumento principe per soddisfare quegli obiettivi.
Alle stime fatte dalla FAO e relative alle perdite di prodotto in campo si aggiungono altri studi, ad esempio quello fatto da V-safe, spin-off dell’Università Cattolica di Piacenza. Le perdite, in ipotesi di assenza di protezione in campo e nel post raccolta, sarebbero dell’ordine del 50-80%, a seconda della coltura.
Alla luce di questi dati risulta difficile comprendere l’intenzione della Commissione di abbattere del 50% l’uso di agrofarmaci, utile strumento di protezione; ci si augura che vengano presi in considerazione gli sforzi già fatti dall’agricoltura per ridurre questo uso: negli ultimi trent’anni il calo è stato del 40% e i composti più pericolosi sono stati tolti dal commercio da tempo. Quindi perché imporre un calo tout court senza valutazioni di merito sulle classi di pericolosità, senza considerare se vi siano alternative praticabili e senza valutarne gli effetti su disponibilità di cibo, economia del settore agroalimentare, impatto ambientale conseguente? Ciò anche perché dove le alternative ci sarebbero, grazie al miglioramento genetico e alle biotecnologie, queste sono osteggiate.
Si aggiunga che, secondo uno studio danese pubblicato nel 2018, il rischio collegato alla presenza di agrofarmaci nel cibo è pari a quello collegato al bersi un bicchiere di vino ogni tre mesi: la percezione del rischio che i consumatori hanno è molto lontana dalla realtà. Forse la responsabilità è anche di chi ha bisogno di crearsi un mercato per i propri prodotti, siano essi cibo, trasmissioni televisive o articoli di stampa. Il cibo prodotto in UE risponde già alle norme più severe al mondo in tema di sicurezza alimentare e ambientale.
Venendo all’obiettivo della Farm to fork di portare l’agricoltura biologica al 25%, come già detto, questo porterà un calo produttivo, come previsto dei vari studi di simulazione di impatto della Farm to fork. I prezzi aumenteranno di conseguenza, e anche questo è previsto. Inoltre, già oggi il mercato del biologico ha saturato la domanda, tanto che le organizzazioni del settore chiedono misure di promozione del consumo del biologico, per esempio imponendone l’obbligo in mense scolastiche o ospedaliere: non esattamente una misura che conduca ad un mercato sano. Sarebbe comprensibile se il cibo biologico fosse più sano del convenzionale, ma così non è.
D’altra parte, il biologico è una certificazione di processo, non una certificazione di sostenibilità; forse potrebbe essere chiesto al biologico di misurare la propria impronta ambientale per unità di cibo prodotto: per chilo di farina, per etto di ortaggi. Infatti, nella maggior parte dei casi l’agricoltura biologica ha un impatto ambientale locale per ettaro coltivato minore rispetto a quella convenzionale. Ma se si considera l’unità di prodotto ottenuto le cose cambiano, principalmente perché la produzione biologica è minore e perciò, per produrre la stessa quantità di cibo, si rende necessario sottrarre più terra ad ecosistemi non agrari per metterla a coltura. Secondo alcuni studi, inoltre, le emissioni di gas serra in biologico sono maggiori a causa del maggior numero di lavorazioni necessarie sul terreno.
Dunque, la domanda preliminare che occorre porsi è: per le politiche agricolo-ambientali europee, l’agricoltura biologica è un mezzo o un fine?
L’applicazione della Farm to fork ha infine trovato sulla propria strada l’invasione russa dell’Ucraina. La guerra ha mostrato chiaramente, anche ai non addetti al settore agroalimentare, che diversi settori dell’economia dell’UE vivono di importazioni e che l’aumento dei costi energetici e dei carburanti, iniziato già nell’autunno del ’21, ha un impatto su tutte le filiere.
Il commercio internazionale rimane vitale per l’economia ma, in un contesto così fragile, pensare di appaltare ulteriormente la produzione del nostro cibo a Paesi terzi appare folle.
Concordiamo con la volontà di rendere il processo di produzione del cibo sempre più sostenibile: lo si faccia adottando innovazioni efficaci e sempre più utilizzate in tutto il mondo, quali sono le varie tecniche biotecnologiche applicate al miglioramento genetico vegetale. Ma ancora più urgente, e funzionale a ciò, è liberarsi di approcci obsoleti alla prova dei fatti, frutto di ideologie che non aiutano la ricerca di soluzioni.
da L'Astrolabio, 19/7/2022