È opinione comune che le cucine dei paesi caldi facciano largo uso di spezie e ci si sta chiedendo se il cambiamento climatico in atto possa portarci a cucine più speziate. Considerazione non oziosa pensando che in Italia il maggior consumo di spezie si ebbe durante il periodo caldo romano (optimum climatico romano tra il 250 a. C. circa al 400 d. C.) e nel periodo medievale fino al Quattrocento quando un clima permise la coltivazione soprattutto nell’Europa settentrionale e l’espansione verso Nord di foreste là dove prima c’erano solo ghiacciai.
Il maggior uso di spezie nelle cucine di paesi con clima caldo è documentato dalle due indagini di Paul W. Sherman e Jennifer Billing (1999) e di Lindell Bromham e coll. (2021), ma ancora se non oscuro, certamente molto dibattuto è quale sia il legame che sembra esistere tra un clima caldo e un elevato consumo di spezie soprattutto piccanti. La parola spezie deriva dal latino species, radice anche della parola speciale, indica costosi beni d'importazione e da qui anche il loro fascino e il significato di ricchezza, potere e generosità. Le spezie come condimenti entrano nella cucina prima dei Greci e poi dei Romani, per arrivare al Medioevo quando nell’alta cucina signorile almeno in metà delle ricette carne e pesce sono accompagnate da salse generosamente speziate. L’uso medievale delle spezie, che solo oggi sappiamo avere anche effetti antimicrobici, è stato considerato un adattamento per contrastare il rischio di infezione di origine alimentare e per una ipotizzata loro capacità di mascherare il sapore della carne marcia per fermentazioni microbiche e di conseguenza un argine alla difficoltà di conservarla per lunghi periodi. Idee queste non più accettabili e davvero strane, considerato il costo delle spezie e quando la cucina medievale aveva sviluppato l’uso del sale, dell’aceto e soprattutto la tecnica delle cotture multiple per conservare carni e pesci. In modo analogo anche le popolazioni dei paesi caldi hanno elaborato cucine con sistemi di conservazione degli alimenti senza fare uso di spezie. Senza ottenere un grande consenso si è anche provato di spiegare un maggiore uso delle spezie nei climi caldi in una prospettiva evoluzionistica, ritenendo che i popoli di questi paesi con più elevati livelli di malattie di origine alimentare allontanano il rischio con l’aiuto delle varie spezie aggiunte ai loro piatti, più frequentemente rispetto ai paesi freddi che tendono ad usarle di meno.
Odiernamente, anche in base alle considerazioni di Lindell Bromham e coll. (2021), si può ritenere che un alto uso di spezie locali, quindi di prezzo contenuto, nella cucina delle popolazioni di paesi con clima caldo non dipende da un controllo di infezioni alimentari, ma a fattori socioeconomici e soprattutto gustativi. In queste condizioni infatti le spezie permettono di conferire caratteristiche particolari e variato a cibi altrimenti di gusto uniforme, se non anonimo, anche a popolazioni con un basso reddito e l’associazione tra clima caldo e un maggior uso di spezie sarebbe solo una co-varianza senza un predico significato. Una associazione univoca di causa – effetto tra spezie, salute e povertà non sarebbe possibile, non tiene conto della diversità culturale delle popolazioni in relazione al clima e alle sue variazioni e sarebbe quindi solo una coincidenza. Allo stesso modo se un clima più caldo ha favorito un’espansione dell’Impero Romano, un uso di spezie d’importazione e alto costo nell’alta cucina romana con ogni probabilità è avvenuto soprattutto come elemento elitario e distintivo di una classe sociale ricca e dominante.
Allo stato attuale i cibi piccanti non sono quindi in modo univoco e in un rapporto tra causa ed effetto spiegati da un singolo fattore quale il clima, la densità e il reddito della popolazione umana, la diversità culturale. Inoltre i modelli di utilizzo delle spezie non sembrano essere guidati dalla biodiversità e dal numero di spezie che crescono naturalmente nella zona. Anche per le spezie le correlazioni tra cultura e ambiente sono difficili da interpretare, perché molti elementi culturali sono ereditati insieme da antenati condivisi e molte variabili culturali e ambientali mostrano una forte covariazione, più che a cambiamenti dovuti a cause singole.
Odiernamente siamo di fronte a sfide inerenti previsioni sui modelli di variazione culturale e alimentare umani in termini di pressioni evolutive per un cambiamento climatico che, a differenza di quelli precedenti, si dimostra estremamente rapido. In un futuro già incominciato, accanto a una cucina d’élite che mette in luce e valorizza i sapori e gli aromi di materie prime di qualità, probabilmente vi sarà anche una cucina di massa che dovrà usare alimenti di gusto uniforme o senza un gusto ben definito e di larghissimo consumo: cereali, leguminose, farine di nuova provenienza (alghe, insetti ecc.), materiali proteici d’origine cellulare da colture bio-tecnologiche. Visti i modelli d’uso delle spezie nel passato e in diverse popolazioni, in questo secondo tipo di cucina peraltro in gran parte industrializzata e che userà anche nuovi alimenti, vi potrà essere un ampio uso di spezie e loro associazioni, ricuperando anche modelli gustativi e gustemi tradizionali.