Il giurista Paolo Grossi, rinnovatore degli studi della storia del diritto italiano, presidente emerito della Corte costituzionale, che ha guidato tra il 2016 e il 2018, è morto a Firenze lo scorso 4 luglio, all'età di 89 anni.
Era professore emerito di Storia del diritto medievale e moderno dell'Università di Firenze, dove ha svolto quasi tutta la sua prestigiosa carriera accademica.
Accademico dei Georgofili dal 1965, emerito dal 2002, lo ricordiamo con la prolusione da lui svolta in occasione della inaugurazione del 250 anno accademico dei Georgofili, nel 2003.
Aspetti giuridici della globalizzazione economica
Il tema della prolusione segnala la lungimiranza del nostro impareggiabile Presidente, autentico rifondatore di questo plurisecolare sodalizio; si tratta, infatti, di un tema immerso nel presente ma proiettato nel futuro.
È un privilegio non nuovo per la nostra Istituzione: da giurista, mi piace almeno ricordare le ricche dispute sul contratto basilare della vecchia economia agraria toscana, la mezzadria classica, dispute antesignane che si orìginano e si sviluppano nel clima culturalmente vivacissimo della prima metà dell’Ottocento, quando le aule dei Georgofili costituivano – nella completa assenza di un polmone universitario – il centro della intiera cultura fiorentina.
È una vivacità culturale, di cui oggi gode la Accademia sotto la vigile ma insieme coraggiosa Presidenza di Franco Scaramuzzi, ed è per ciò che ho ritenuto un autentico onore per me l’invito a tenere la prolusione in una ricorrenza celebrativa di tanto rilievo.
Vorrei aggiungere che il tema del presente discorso è tutt’altro che isolato: era sostanzialmente il nucleo della prolusione dell’allora Ministro Dini, del 1998, su “L’agricoltura di fronte alle sfide dell’economia globale” e ha costituito l’oggetto formale di quelle tenute nel 2000 dall’ambasciatore Renato Ruggiero su “Globalizzazione e interdipendenza” e dal Presidente Alfredo Diana nel 2002 su “Problemi attuali della globalizzazione e della fame nel mondo”.
Si dirà, piuttosto, da qualcuno: perché questa insistenza? Non se ne parla abbastanza dappertutto e perfino sulla stampa quotidiana, tanto da far scivolare il tema nella bassa corte dei luoghi comuni?
Una prima risposta è che se ne parla troppo spesso senza cognizione di causa e che occorre da parte dell’uomo di cultura munirsi di coscienza rigorosamente critica verso un fenomeno che sempre più ingigantisce. Una seconda risposta – e che mi riguarda da vicino – è che se ne è parlato analizzando soprattutto le dimensioni economica e sociologica, mentre è rimasta finora in ombra la sua dimensione strettamente giuridica.
Eppure, v’è la sentita esigenza di una ‘governabilità’, di una ‘migliore governabilità del sistema globale’, e proprio nella sopramenzionata prolusione di Ruggiero è scritto e sottolineato l’auspicio di «una strategia comune (...) per rafforzare un sistema internazionale basato sul diritto».
Oggi, la globalizzazione, quale enorme fenomeno in corso soggetto a continui sviluppi e a rilevanti continue trasformazioni, appare ancora come un terreno di sabbie mobili estremamente bisognoso di un intervento da parte della scienza giuridica, scienza tipicamente ordinante, l’unica che possa orientare, definire, insomma ordinare una realtà per sua natura magmatica, straboccante, spesso incontenibile.
Per cominciare subito il nostro cammino ordinativo, è opportuno sgombrare il passo da equivoci, domandandoci il significato primo della globalizzazione: il riferimento è a un tempo storico – l’attuale – che si connota per un primato della dimensione economica quale risultato ingombrante del capitalismo maturo che stiamo vivendo; un primato che dà alle forze economiche una virulenza mai sperimentata fino a ora e una insopprimibile tendenza espansiva. Il mercato appare, come non mai, insofferente a confinazioni spaziali, forte di una sua vocazione globale e determinato a realizzarla. Con un corroboramento ulteriore: l’alleanza e l’ausilio, pronti ed efficaci, delle recentissime tecniche info-telematiche. Anch’esse sono insofferenti a delimitazioni territoriali, si misurano non con i vecchi cànoni spaziali ma campeggiano in uno spazio virtuale a cui è estranea, avversa, innaturale una qualsiasi demarcazione territoriale.
L’alleanza si cementa su una medesima capacità espansiva: nuove tecniche e forze economiche sono due potenze de-territorializzanti. Esse sono a proprio agio nello spazio virtuale che non ha specifiche proiezioni geografiche; pur cariche di valenze terrestri, aleggiano sopra la terra e gli intralci di cui essa è gremita. Lo spazio virtuale creato dalle nuove tecniche sembra fatto apposta per le forze economiche che – sole – sono in grado di abitarlo. Le tecnologie avveniristiche dell’oggi offrono un supporto formidabile all’odierno primato dell’economia e agli odierni protagonisti del mercato, le transnational corporations, mentre pròvocano il declino dello Stato e, con esso, della politica.
Lo spazio virtuale è inadatto alla politica, la quale ha bisogno di proiezioni territoriali, ha bisogno di incarnarsi in enti sovrani, in Stati, perché lo spazio virtuale sfugge ai lacci politici, non si lascia dominare da questi. Si può anche ipotizzare una proiezione mondiale della politica ma quella si risolverà sempre in una somma di territorii, perché il potere politico si concreterà sempre in autorità, in comandi, in coazioni.
Primato dell’economia, dunque, e delle nuove tecniche; declino degli Stati e delle sovranità. Era buon profeta Jean Monnet, uno dei padri dell’unità europea, quando, nei suoi lucidi Mémoires ammoniva: «les nations souveraines du passé ne sont plus le cadre où peuvent se résoudre les problèmes du présent».
Ecco, dunque, un primo elemento prezioso: globalizzazione significa de-territorializzazione; di conseguenza, significa anche primato dell’economia a tutto detrimento della politica; di più, significa eclisse dello Stato e della sua espressione più speculare, la sovranità. Questo serve egregiamente per introdurci a cogliere con precisione il rapporto globalizzazione-diritto.
Sì, perché il diritto moderno, quello cui siamo stati abituati fino a ieri, era modellato dalla politica, sulla politica si era esemplato, a stampi politici si era conformato. Spieghiamoci meglio. La storia giuridica moderna si caratterizza per una scelta innovatrice: la statualità del diritto. L’intelligentissima classe borghese, conquistato che ebbe il potere, capì quale solido cemento fosse il diritto per il compiuto esercizio di quello e ne decise il controllo. Di più: ne sancì il monopolio nelle mani dello Stato, facendone l’unico creatore di diritto. Il paesaggio giuridico che ne conseguì fu estremamente semplice: l’unico attore fu lo Stato e unica voce la sua, cioè la legge, cioè l’atto che manifestava la sua volontà suprema, volontà che aveva ovviamente uno spazio di efficacia ristretto al territorio dove la sovranità statuale si proiettava.
Identificandosi il diritto in una norma autorevole ma autoritaria che pioveva dall’alto sulla comunità dei cittadini e avendo il diritto una funzione rigorosissima di controllo sociale, l’ordine giuridico ne risultò come ingabbiato. Era diritto solo ciò che lo Stato voleva che fosse diritto: le forme in cui questo si manifesta nella esperienza – forme che noi giuristi siamo soliti con tradizione antica chiamare ‘fonti’ – erano immobilizzate in una sorta di piramide, cioè in una scala gerarchica dove una funzione attiva era riserbata unicamente alla fonte di grado superiore, la legge, restando le fonti subalterne (per esempio, la vecchia matrice dell’ordine giuridico pre-rivoluzionario, la consuetudine) relegate in posizione servile senza nessun ruolo incisivo; il diritto, proprio perché voluto dall’alto e in base a un progetto disegnato in alto dai detentori del potere, era inevitabilmente destinato a formalizzarsi separandosi dai fatti sociali ed economici in continuo divenire.
Al mondo dei fatti è legittimato a guardare solo il legislatore, che si identifica sempre con il detentore del potere; è lui e unicamente lui che, maneggiando cultura morale giustizia politica economia, trasformerà tutto in diritto. Alla società resta soltanto da sperare che le esigenze oggettive scritte nelle cose non siano troppo strumentalizzate dal potere e pertanto alterate o violate.
Il genuino diritto moderno si fonda su tre semplicissimi pilastri portanti: Stato, legge, territorio. E il diritto, divenuto una dimensione rigida e formale, si scosta e si separa dal sociale, si cristallizza nella espressione dello Stato che è sempre, anche nelle sue manifestazioni più democratiche, un apparato di potere. Lo Stato, questo grande burattinaio inventato dai moderni, è creatura dura a morire, e lo dimostra l’estrema fatica con cui si cerca di costruire in questi ultimi anni l’unità giuridica europea, di pensare e redigere una Costituzione europea. Noi formuliamo gli auguri più caldi alla Convention presieduta da Valery Giscard d’Estaing, ma non è avventato preconizzare una vita lunga e irta di difficoltà.
Abbiamo ora qualche strumento per mettere meglio a fuoco il grado di incidenza della globalizzazione sull’universo giuridico. Questo ne esce, se non sconvolto, certamente complicato, reso maggiormente complesso. Infatti, globalizzazione – per il giurista – significa rottura del monopolio e del rigido controllo statuale sul diritto. Se ieri il vincolo tra diritto e volontà politica aveva quasi i caratteri della necessità, ora la virulenza e la capacità di imperio delle forze economiche impongono altre fonti di produzione.
Il legislatore statale è lento, distratto, bassamente prono alle voglie dei partiti politici; la giustizia statale non è in grado di corrispondere alle esigenze di rapidità e di concretezza della prassi economica. Si aggiunga che Stato e giustizia statale si collocano ancora in un’ottica territoriale, che è asfittica per la circolazione capitalistica ormai globale.
La prassi economica si fa produttrice di diritto: la nuova economia e le nuove mirabolanti tecniche esigono arnesi giuridici nuovi irreperibili nel solco della bimillenaria tradizione del diritto romano radicata fondamentalmente sulla nozione di cosa corporale, una nozione che a fine Novecento appare paleolitica ai contemporanei uomini di affari. Ci sono esigenze giuridiche nuove e si ‘inventano’ strumenti giuridici nuovi atti a ordinare la nuova circolazione globale.
È quel complesso di istituti, che galleggiano sul tessuto degli ordinamenti giuridici dell’Europa continentale ancora coi loro intatti appellativi inglesi – leasing, factoring, franchising, e via dicendo –, che i legislatori europei tardano ad accogliere e disciplinare o che si guardano bene dal disciplinare, e che denunciano nei loro barbarismi una origine lontana.
Ai fini della nostra prolusione, quel che preme di sottolineare con forza è che la prassi economica (in prima linea soprattutto le grandi transnational corporations e soprattutto nordamericane o di irradiazione nordamericana), con l’ausilio di attrezzatissimi consulenti legali (in prima linea soprattutto le grandi imprese professionali, le law firms, e soprattutto nordamericane o di irradiazione nordamericana) producono per i loro scopi e nel loro àmbito un diritto nuovo, il quale, nella eventualità di una controversia, non troverà tutela e quindi possibilità di applicazione grazie ai giudici degli Stati e alle loro sentenze bensì grazie ad arbitri e a decisioni arbitrali, ossia a giudici e giudizii privati accettati dalle parti sin dal momento di sottoscrizione del contratto. Arbitri: cioè giudici privati, quasi sempre dei grandi giuristi scelti per preparazione, cultura, sensibilità e forniti di un prestigio a livello internazionale.
Preme insistere su un risultato: accanto al grande canale navigabile e navigato del diritto dei varii Stati o del diritto comunitario o del diritto internazionale, prendon forma in maniera sempre più netta altri canali che corrono paralleli e che diventano sempre più navigati. Si attuano grosse brecce nel monopolio giuridico statuale, giacché, ormai, i soggetti produttori sono plurali e plurali le fonti del diritto.
Di più: se il diritto moderno può considerarsi un diritto interamente pubblicizzato, dal momento che lo Stato si preoccupa perfino della disciplina dei rapporti privati nella vita quotidiana dei privati (l’esempio clamoroso è il Codice civile), con il diritto della globalizzazione si ha nuovamente (come si aveva nell’antico regime prima della rivoluzione francese) un diritto privato prodotto da privati.
Dunque, due risultati storicamente ragguardevoli (anche se possono essere variamente considerati e valutati): pluralismo giuridico, perché pluralità di fonti; re-privatizzazione di larghe zone del pianeta giuridico. Segniamo qui qualche ulteriore carattere, che tipicizza il diritto della globalizzazione rispetto al diritto degli Stati. È dominato da un criterio di effettività, rappresentando non già l’esplicazione di un progetto autoritario ma coagulazioni esprimenti esigenze effettive nella concretezza della vita quotidiana. Effettività significa per l’appunto questo: un fatto è così azzeccato, è così congeniale agli interessi degli operatori economici che essi lo ripetono, lo osservano, e non perché sia uno specchio fedele di qualcosa che sta in alto ma perché ha in sé una forza (e, se vogliamo, una capacità persuasiva) che lo rende meritevole di osservanza e, quindi, di vita durevole.
Sono i fatti economici che contano; e contano così come sono: grezzi, informi, carichi di scorie che le pratiche quotidiane vi depositano e che sono da considerarsi rispettabili perché, nella loro a-formalità e plasticità, possono egregiamente rispondere alle variazioni del mercato secondo i varii tempi e luoghi. Se la dialettica ‘tipico-a-tipico’ ha percorso il diritto borghese moderno e la sua modellistica, si può invece constatare che i canali del diritto globalizzato sono il regno incontrastato della atipicità (in altre parole, del fattuale).
Ancora: mentre il diritto degli Stati tende a diventare scrittura, a seppellirsi e a identificarsi in un testo, per il comprensibilissimo motivo che si acquisisce in tal modo certezza, stabilità, ma anche ineludibilità, il diritto della globalizzazione è contrassegnato da una praticata oralità e comunque rifugge da quello che noi insegniamo ai nostri studenti essere il primo carattere della legge, e cioè la rigidità. Una virtù della regola giuridica è qui ritenuta la sua flessibilità, cioè la sua capacità di adattamento alle situazioni più varie. È una prassi che crea diritto, e lo crea per i suoi bisogni, i quali, connessi strettamente al mercato e al suo evolversi, connessi strettamente alle nuove tecniche ormai insostituibili per il mercato globale e in rapidissima continua innovazione, sono estremamente mutevoli. Qui la fissità, il Codice come emblema massimo di una fissità indefinita pensabile addirittura come perpetua, è un negativo da evitare ad ogni costo.
Se il civis si inserisce come subditus al di sotto dell’apparato statuale, il protagonista del mercato è semplicemente l’homo oeconomicus distinguibile e classificabile nella elementare scansione di produttore, distributore, consumatore; per lui la norma giuridica – di cui ha bisogno, di cui non può fare a meno – è qualcosa di ben diverso dalla legge statuale. È più una regola, un principio, sempre all’insegna della duttilità e del rifiuto di ogni ossificazione. Lo dimostrano quei Principles regolanti a livello transnazionale le linee essenziali dei contratti, che da poco, grazie all’opera di tecnici prestigiosi e rispettati, sono un patrimonio cui attingere.
Si rifletta per un momento: il nucleo fondamentale, il più delicato e il più propulsivo del diritto globalizzato, i contratti, ossia il supporto giuridico del mercato, abbisognano di principii ordinanti e non di ingessature normative.
È per ciò che la vecchia immagine della piramide, speculare al vecchio sistema normativo, viene sostituita da un’immagine che non èvochi necessariamente una sgradita scansione gerarchica; e i sociologi del diritto – ma anche i giuristi più all’avanguardia sulle nuove trincee – parlano di rete, nell’intento cioè di sostituire all’immagine piramidale potestativa e autoritaria quella di un sistema di regole non poste l’una sopra o sotto l’altra, bensì sullo stesso piano, legate l’una all’altra da un rapporto di reciproca interconnessione.
Regole che non troveranno la loro legittimazione in un’unica fonte suprema immedesimata in chi detiene il supremo potere politico, ma il più delle volte in un moto spontaneo di quella realtà varia e mobile che è il mercato. Senza ipostatizzazioni gerarchiche, uomini di affari, grandi tecnici empirici delle grandi imprese professionali giuridiche, grandi teorici del diritto sono parimente coinvolti nella produzione del plastico diritto globalizzato, tutti coautori, tutti protagonisti. È la rivincita del giurista empirico e teorico. È anche certa una conclusione. Oggi il giurista vive un momento fertile e, insieme, difficile: fertile, perché il suo è ormai un ruolo attivo e propulsivo; difficile non soltanto per le gravi responsabilità che gravano sulle sue spalle, ma anche per quell’esteso quoziente di incertezza che si ripercuote sulla sua azione conoscitiva-applicativa.
Aperture, stimolazioni. Il quadro sin qui tracciato sembra indulgere a una valutazione positiva del rivolgimento in corso e, in particolare, della crisi attuale che investe il cuore del diritto di un paese – come il nostro – a impostazione legalitaria.
Una prima considerazione: lo storico è soprattutto un realista; il movimento c’è e c’è la crisi, l’uno e l’altra insopprimibili. Prenderne atto senza pigrizie culturali, senza misoneismi, senza pregiudizii, è dovere elementare del giurista proprio come uomo di cultura. Al di là di questo, v’è un dato obbiettivo da cogliere con favore: si è venuta a creare una dialettica tra valori e culture diversi. Il generale sopore e l’appagamento dei luoghi comuni ne risultano scossi. Il diritto ufficiale, fino a ieri beato di un indiscusso monopolio, è costretto a un confronto e – prima o poi – a una verifica delle proprie fondazioni, quasi a un esame di coscienza (se mi si passa l’espressione). Tutto questo appare positivo allo storico, che conosce i danni dell’immobilismo culturale e sa bene quanto di futuro si nutra nelle vivaci contrapposizioni dialettiche. Sotto questo profilo il tema della globalizzazione deve essere affrontato anche dal giurista: è una occasione preziosa da non perdere, da cui lo stesso diritto ufficiale può trarre rinvigorimenti.
Guai però se questo atteggiamento di disponibilità si tramutasse in un facile entusiasmo e, cavalcando emozioni e umori, in una accettazione acritica.
Ieri si faceva i conti con la arroganza della politica e dei politici, costata – a nostro avviso – assai cara per lo sviluppo del diritto moderno. Sacrosanta constatazione, che non deve però impedirci di aprire bene gli occhi sul fenomeno ‘globalizzazione’.
Un diritto di prassi – abbiam detto –, che viene dal basso, dall’esperienza. Giustissimo. Ma non dimentichiamo quali sono le forze storiche protagonistiche e chi ne sono gli attori primarii. Più che una prassi fatta da un popolo minuto di homines oeconomici, si tratta di una realtà economica determinata da chi, ormai, al giorno d’oggi, sollecita e indirizza il mercato globale, e cioè le transnational corporations, le grandi imprese multinazionali, molte delle quali – come abbiam già rilevato più sopra – di irradiazione nordamericana.
E qui cominciamo a inoltrarci in un terreno infido; qui la globalizzazione mostra la sua duplice faccia per il giurista; occasione, grossa occasione di maturazione e di aperture, ma anche grosso rischio. E il rischio sta nell’arroganza del potere economico, che non è minore di quella paventata del potere politico. Il rischio è la strumentalizzazione della dimensione giuridica al soddisfacimento di interessi economici, spesso concretàntisi – in un clima di capitalismo sfrenato – nel raggiungimento con ogni mezzo e ad ogni costo del maggior profitto possibile. Nei confronti di questa arroganza le grandi law firms, i grandi competenti che fungono da supporto tecnico della globalizzazione, possono abbassarsi al rango servile di ‘mercanti del diritto’, con un ruolo spregevole perché macchiato da una sorta di simonia. Questo è un rischio grosso. Si dirà: ma globalizzazione non è soltanto un fenomeno economico; sono a proiezione ed espansione globale anche le cosiddette ‘non governmental organizations’, cioè forme organizzative che si muovono in dimensioni religiose, culturali, sportive, assistenziali. Verissimo, ma non possiamo nascondere a noi stessi che questa globalizzazione estra-economica ha una rilevanza assolutamente minore e una minima incisività a livello giuridico. Sono, infatti, gli uomini di affari, assai più che gli sportivi, o gli uomini di chiesa e di cultura, a volere un diritto proprio e a provocare quello che è oggi il problema giuridico della globalizzazione.
I rischi non finiscono qui. A un esame puramente lessicale ‘globalizzazione’ vale ‘mondializzazione’; con questi termini si sottolinea cioè un fenomeno insofferente a localizzazioni, senza territorio definito, senza frontiere, autenticamente mondiale. È questa anche una delle sue valenze positive. Ma una domanda urge: siamo veramente di fronte all’emersione e all’assestamento di un movimento globale, o non siamo di fronte a una semplice espansione occidentale? Peggio ancora: all’interno di questa marcata occidentalizzazione non si rinviene forse – e nemmen tanto nascosta – una marcata americanizzazione? Il che è grave in un momento in cui quel marchio di origine si identifica col pesante sfruttamento economico operato dalla superpotenza a danno di tanti paesi e in cui si avverte l’esigenza di misurarsi, ad ogni livello, con una pluralità di culture e in cui si deve tentare ad ogni costo il disegno di una realtà, la quale è autenticamente globale unicamente se riesce a serbarsi autenticamente multiculturale, facendo tesoro di apporti che non vengono solo dalla solita pingue realtà nordamericana, ma dall’Europa, dall’Oriente medio ed estremo, dall’Africa.
È la preoccupazione che è emersa, per esempio, in seno alla Conferenza Episcopale Italiana, preoccupazione per un vuoto che i poteri economici riempiono a loro arbitrio tradendo e violando identità culturali diverse, ignorando la dimensione etica di soggetti e rapporti, con il risultato di un paesaggio socio-economico-giuridico completamente piatto.
Giovanni Paolo II non a torto, in occasione della giornata mondiale della pace, il 1 gennaio di quest’anno, ha insistito su «il problema dell’ordine negli affari mondiali», un ordine che «non può prescindere da questioni legate ai principii morali».
E il sociologo, che più d’ogni altro ha avvertito l’esigenza di ‘orientare’ il cambiamento, non ha mancato di intitolare un libro (che, or sono due anni, ha fatto molto discutere in Italia) La solitudine del cittadino globale, un cittadino solo, più solo, perché affidato alle impietose correnti economiche globalizzanti e sottratto alle proprie radici identificatici di indole religiosa, etica, culturale.
Che fare da parte dei giuristi? Innanzi tutto, mi sembra che un imperativo non eludibile sia di occuparsene, senza ripugnanze, ma anche senza quei facili entusiasmi che sono sempre i peggiori consiglieri per gli uomini di cultura. Occuparsene, con la forza e il sussidio di due atteggiamenti psicologici positivi tanto difficili da armonizzarsi reciprocamente, e cioè coraggio e vigilanza. Occuparsene nel tentativo di ordinare un grandioso fenomeno, di impedire o attenuare facili degenerazioni. Occorrerà una coscienza legante che manca alla diàspora mondiale dei giuristi, la consapevolezza di uomini di scienza e di prassi accomunati dal possesso di un certo pensiero, di certe conoscenze, di certe tecniche e uniti dalla certezza del valore òntico del diritto per la vita d’una comunità locale o globale. Ontico è parola grossa, che può suonare anche oscura; vuol soltanto sottolineare che il diritto non è per la comunità umana né un artificio né una coartazione; pertiene, invece, alla sua stessa natura e deve pertanto esprimerla compiutamente.
Questa coscienza salda e comune quale unica armatura dei giuristi potrebbe anche generare degli organismi a proiezione mondiale necessarii per fissare e definire principii e regole. Talune esperienze dimostrano che si tratta di strade erte e disagevoli ma non di chimere per ingenui sognatori.
V’è oggi per il giurista uno spazio che egli è chiamato a percorrere. Oggi, nell’età in cui maturano esperimenti – forse non soddisfacenti ma indubbiamente ragguardevoli – come la recente cosiddetta ‘Carta di Nizza’, ossia la ‘Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea’ proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, il suo ruolo appare indispensabile in seno alla società. Lui soprattutto, mèmore di un’antica sapienza che voleva il diritto, tutto il diritto, costituito hominum causa, potrà e dovrà essere il difensore più agguerrito della persona umana di fronte alle insidie della globalizzazione economica.
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