Il futuro del cibo potrebbe essere come ce lo ha rappresentato il regista coreano e premio Oscar Bong Joon-ho nel film Snowpiercer: una barretta a base di alghe, zucchero e gelatina, ovvero quel minimo di nutrienti necessario a tenerci in vita. Secondo Jacques Attali si tratterebbe di uno scenario possibile, almeno per quanto riguarda il cibo dei poveri, standardizzato e processato sino a negare qualsiasi soddisfazione al palato, agli antipodi di quello riservato ai ricchi, che invece probabilmente sarà sano, variegato e dotato di sapori e profumi.
D’altra parte, nutrire un pianeta che presto sarà abitato da 10 miliardi di umani richiede di aumentare le rese e incrementare i livelli produttivi. Se questo è lo scenario dell’agricoltura, la trasformazione a valle potrebbe finire per essere gestita da poche multinazionali - i signori del cibo - interessate a ridurre i costi unitari e consegnare pochi prodotti standardizzati al mercato mondiale, tramite una distribuzione profondamente semplificata che non competerà più a livello di gamma ma soltanto di ubicazione del punto vendita. Questo almeno per le masse.
Andrà così? Non necessariamente. Possiamo ancora fare qualcosa per evitarlo.
I consumatori, ce lo dice l’Unione Europea, desiderano «cibi freschi, meno lavorati, provenienti da fonti sostenibili e da filiere più corte». Analizzando la composizione media dello scontrino di una spesa alimentare, queste aspirazioni si rivelano in buona parte «idealizzate». In Italia come all’estero finiscono nel carrello una quantità elevata di piatti pronti, cibo confezionato, conserve e snack. Dovendo necessariamente rinunciare al progetto di autoprodurre il proprio cibo, il consumatore trova oggi riscontro a questo bisogno di natura away from home: per esempio negli agriturismi con ristorazione a filiera corta, nei ristoranti iper-locali o al desco di chef stellati che curano direttamente il proprio orto.
In questo contesto, l’industria alimentare è ancora percepita come il principale responsabile della perdita di naturalezza degli alimenti, l’artefice del processare e dello standardizzare. Si dimentica troppo spesso che la trasformazione ha risolto la questione dell’igiene, perfezionato e ampliato i metodi di conservazione e contribuito a nutrire una popolazione mondiale passata dai 3 miliardi di persone del 1960 agli 8 miliardi del 2022, in cambio di una quota decrescente del loro reddito disponibile. L’industria alimentare italiana, comunque, si rispecchia poco nel modello «multinazionale»: le oltre 50.000 imprese attive nel nostro Paese hanno una dimensione media di 8 dipendenti.
In questo momento, con la transizione ecologica alle porte, con il Green Deal e la Strategia Farm to fork della Commissione Europea che premono sui principali snodi della filiera in nome della sostenibilità, dell’economia circolare, dell’impatto climatico 0, il nostro modo di produrre il cibo si confronta con un cambio di paradigma. Fondi consistenti saranno stanziati per la riconversione verde. Sulle modalità di questa transizione ancora si ragiona. Per l’Italia si tratta di un’occasione imperdibile di rafforzare anche e nel medesimo tempo il collegamento tra agricoltura, trasformazione, distribuzione e aspirazioni dei consumatori.
Dobbiamo dire chiaramente che partiamo da posizioni piuttosto arretrate. Una ricerca recente ha evidenziato per esempio che i Toscani mangiano «toscano» soltanto al 18%, una percentuale che non si discosta molto da analoghe dinamiche di consumo e produzione registrate in altre Regioni (con l’eccezione di Lombardia, Emilia Romagna e Trentino Alto Adige, tutte sopra il 25%). Una percentuale così bassa ha innumerevoli spiegazioni, può essere compresa appieno soltanto inserendola all’interno della struttura dei consumi nazionali e tenendo presente il funzionamento del mercato agricolo, che l’Unione Europea ha spinto con sempre maggiore decisione verso la competizione. Infine non è da confondere con l’autosufficienza alimentare. Tuttavia non può essere considerata indipendente dal modo in cui è utilizzato il terreno coltivabile a livello regionale. In Toscana quest’ultimo è investito massicciamente a viti e ulivi perché si è creduto nelle potenzialità economiche di vino e olio, specialmente in termini di esportazioni, sacrificando necessariamente altre possibili coltivazioni.
Fig. 1 Prime 10 coltivazioni agricole in Toscana nel 2020 (ettari) - scarica Fig. 1.jpg
(Fonte: elaborazione dell’autore da https://www.regione.toscana.it/-/agricoltura-in-toscana-dati-sintetici-2018-2020)
Questo modello di specializzazione è stato economicamente e socialmente apprezzato sino a che la globalizzazione non è incappata negli sconvolgimenti provocati dalla pandemia prima, e della guerra in Ucraina poi. È stato vincente cioè sino a quando traffici commerciali ordinati hanno consentito il funzionamento efficiente delle filiere lunghe, la riduzione delle divergenze economiche tra differenti aree geografiche del pianeta, la costante e progressiva diminuzione del prezzo del cibo, non ancora gravato del suo costo ambientale effettivo.
Oggi è un modello che presenta qualche criticità e almeno parzialmente da rivedere. È un modello in cui il «cibo del territorio» deve essere re-inserito e quella percentuale di consumo di prodotti locali aumentata. I Toscani, e con loro tutti gli Italiani, potrebbero darsi come obiettivo minimo «quota 25%», assumendo questo indice come una misura di collaborazione intra-filiera a livello regionale.
L’idea che qui si propone è di avviare un’operazione culturale che consenta di stringere e rafforzare al tempo stesso le filiere su base nazionale e regionale. Occorrerà preliminarmente stabilire un terreno di comunicazione comune. Il fil rouge che unisce produzione-trasformazione-consumo è il territorio. I consumatori chiedono cibo del territorio, gli agricoltori gestiscono le colture sul territorio: si tratta di collocare in questo circuito l’industria e la distribuzione. La chiave di volta di questo disegno si chiama «patrimonio gastronomico». Alcuni campioni di qualità contribuiscono già all’appeal e alla diffusione nel mondo del Made in Italy agroalimentare: sono i 315 prodotti DOP, IGP e STG. Il valore della produzione di queste denominazioni protette dalla UE è di 7,3 miliardi su oltre 170 miliardi di fatturato del totale agricoltura e industria alimentare italiane. Ma le frecce disponibili al nostro arco per la valorizzazione del patrimonio gastronomico sono ben più numerose: l’Italia può contare infatti su una pattuglia di oltre 5.000 prodotti agricoli primari e prodotti trasformati della tradizione locale, inquadrati dal D. Lgs n. 173 del 1998 (art. 8) come Prodotti agroalimentari tradizionali (PAT) e censiti dal 2000 su base regionale. È a questo variegato giacimento di specie vegetali, di ingredienti e ricette che possiamo attingere per varare la riconversione verde e aumentare il consumo di prodotti locali, trovando il 7% che manca per raggiungere il nostro obiettivo. Il cavolo riccio nero di Lucca, la cipolla di Certaldo, il pecorino del Casentino, i pici, la cecina, il brigidino di Lamporecchio o il cacciucco livornese sono soltanto alcuni dei 464 PAT ad alto potenziale nel paniere di specialità della sola Toscana. Ma ogni Regione ha i propri campioni da schierare.
Sul piano operativo, i passi da compiere sono tanti: effettuare ricerche sulle loro proprietà funzionali, individuare i prodotti e le materie prime che possono fungere da traino per tutta la categoria, avviare o rafforzare le coltivazioni, attrezzare gli impianti di trasformazione, informare i consumatori, chiedere un riconoscimento giuridico ad hoc all’Unione Europea. Presto le Regioni dovranno decidere quali strumenti approntare per declinare la nuova PAC: il tempo per dare sostanza a questo progetto è adesso.
Dovendo attribuire una qualifica a questa industria che vorremmo attenta al territorio, versata culturalmente alla riscoperta di coltivazioni perdute dei nostri antenati, pronta a collaborare con gli agricoltori, flessibile al punto da lavorare anche piccoli lotti, interessata alla conservazione del gusto e perciò refrattaria alla trasformazione spinta, digitalizzata e integrata nella società globale, versata nelle esportazioni, scevra di matrici corporative perché in continuità con il sistema cooperativo e con quello delle imprese artigiane, viene in mente sopra a ogni altro l’aggettivo «gentile». Un’«industria gentile» come terza via tra il modello corporation che distribuisce cibi standardizzati e il nostro immaginario di coltivatori di orti, massai e cucinieri.
Questa terza via è in grado di raccogliere consensi trasversali. Come tutte le idee nuove può incontrare però qualche resistenza. Per esempio potrebbe darsi l’obiezione che soltanto la disponibilità diretta del prodotto della terra può garantire al consumatore quell’elemento di naturalezza del cibo di cui abbiamo detto: se questo può essere definito il sogno di una società terziarizzata, tuttavia è vero anche che «quando una qualsiasi riduzione di passaggi di filiere agroalimentari lunghe accorcia la strada del prodotto attraverso i sistemi agroalimentari, siamo in presenza di una filiera corta». Altri potrebbero osservare che sul mercato sono presenti sin troppi marchi (privati, collettivi, geografici e denominazione protette) e che inserire una nuova categoria (i PAT) può confondere ulteriormente il consumatore: è vero però il contrario. Fischler direbbe che «se non sappiamo quello che mangiamo, non diviene forse più difficile sapere, non soltanto chi diventeremo, ma anche chi siamo?». In altri termini, la possibilità di riconoscere i PAT sugli scaffali può soltanto ridurre il livello di ansia del consumatore.
Lo sforzo da compiere per sviluppare questa industria più vicina al territorio è minimo. Serve soltanto una «spinta gentile», un nudge come direbbe R.H. Thaler, ovvero un contesto favorevole: progetti di filiera di dimensioni anche piccole, incentivi alle attività di R&S a misura di settore, promozione dei PAT sul mercato nazionale e se possibile su quello europeo. In cambio, potremo avere in tavola cibi più sostenibili, ampliare le possibilità di scelta, recuperare le tradizioni e quindi una parte importante della nostra identità culturale.
L’«industria gentile» sul modello italiano potrebbe persino imporsi come riferimento per la trasformazione agroalimentare di nuova generazione in Europa.