Dopo aver negato l'esistenza dell'olio artigiano, industriali e imbottigliatori si stanno affannando a spiegare che, in fondo in fondo, anche loro sono artigiani. Tutto merito di un'espressione di nuovo conio, una miscela di parole: “arte del blend”.
Invece non c'è infatti niente di meno artistico del blend elaborato da imbottigliatori e industria olearia. Non c'è genio, creatività o estro, ma c'è uno studio a tavolino!
Si parte dall'ufficio marketing che studia gusti e sapori, i desideri dei consumatori, creando un profilo di olio che piace e associandogli, in base a precise indagini di mercato, un prezzo.
Ne esce un blend teorico e precise indicazioni commerciali per l'ufficio acquisti, che dovrà andare a cercare oli, nel bacino del Mediterraneo e oltre, che rispondano ai requisiti fissati dall'ufficio marketing. Una volta operata questa prima scrematura, gli oli passano all'ufficio qualità. In questa sezione, composta di chimici e assaggiatori, si verifica la conformità agli standard, normativi e aziendali. Quindi si procede al blend vero e proprio, ovvero si miscelano gli oli di diverse provenienze per ottenerne uno che risponda tanto ai requisiti di legge quanto ai dettami dell'ufficio marketing. Tutto questo lavoro deve alla fine portare un profitto.
L'”arte del blend” è quindi la nuova frontiera di imbottigliatori e industria olearia per sperare di recuperare le quote di mercato perdute in questi anni.
Una strategia furba che però nasconde insidie e rischi. Se infatti l'”italianità” di un extra vergine è tutta nelle mani di un blendmaster, la figura mitologica che assembla gli oli, allora le aziende straniere non dovranno far altro che acquisire questi professionisti, o le loro competenze, per avere un olio “italiano”. L'”arte del blend” non è solo un bluff, quindi, ma può anche segnare la fine della cultura olearia italiana.
Da: Teatro Naturale, 23/01/2015