Non è la prima volta che il nostro notiziario “Georgofili Info” si occupa del problema del riscaldamento globale del pianeta e dell’impronta del carbonio delle attività zootecniche, spesso ingiustamente indicate come le principali responsabili del fenomeno che appare ormai una deriva ineluttabile. Sembrava quasi che, un po’ in tutto il mondo, si fosse presa una strada giusta per limitare le emissioni di gas serra, per quanto possibile, quando si è pensato bene di far partire una nuova guerra, dopo l’Afghanistan, la Siria, l’Iraq, i Balcani e tutte le altre. E le guerre sono, senza dubbio, importanti fonti di inquinamento atmosferico, oltre a causare morti, sevizie e distruzioni fra la popolazione civile. Sicuramente meno utili degli allevamenti animali.
Le atrocità della guerra ci hanno fatto dimenticare la pandemia da Covid e le precarie condizioni delle nostre finanze, ma non ci dobbiamo dimenticare dell’importanza delle produzioni zootecniche per la nostra sopravvivenza futura, in particolare della filiera lattiero-casearia, che dipende in primo luogo dalla efficienza produttiva delle bovine da latte, particolarmente sensibili allo stress termico. Ed ecco che in letteratura si segnalano nuovi lavori riguardo alla possibilità di mitigare le conseguenze negative dello stress termico sulle produzioni animali: non potendo fare molto per mitigare le temperature del pianeta, molti scienziati guardano con fiducia a tecniche alimentari più adeguate, ad ambienti più protetti e ad animali geneticamente più resistenti.
È accertato che lo stress termico ha influenze negative su tutte le attività degli animali a sangue caldo, quindi anche sulla produttività dei nostri animali allevati.
Per quanto riguarda le bovine da latte, sono apparsi recentemente molti articoli interessanti al riguardo. Fra questi, citiamo i più recenti. Il primo (Lewis et al., Economic Threshold Analysis of Supplementing Dairy Cow Diets with Betaine and Fat during a Heat Challenge: A Pre- and Post-Experimental Comparison. Animals, Vol. 12, 2022. 10.3390/ani12010092.) riguarda l’aspetto nutrizionale: è noto che la digestione degli alimenti ed il metabolismo dei nutrienti assorbiti generano calore. Nella bovina da latte, in particolare, se questo carico termico non può essere disperso nell’ambiente per le condizioni termiche elevate, il consumo volontario degli alimenti e le produzioni di latte risultano compromessi. A livelli di THI (Temperature-Humidity Index) superiori a 68, la vacca da latte subisce stress termico.
Nel citato lavoro di Lewis et al., gli autori dimostrano che, paradossalmente, poiché i grassi producono un incremento termico più basso di altri nutrienti, la somministrazione di diete a più alto contenuto lipidico incrementa la produzione di latte negli animali stressati termicamente.
Il secondo lavoro riguarda lo studio del genoma per la previsione della tolleranza genetica allo stress termico (Cheruiyot et al., Genetics Selection Evolution, Vol. 54, Art. Number 17, 2022). Non è opportuno che mi avventuri a commentare questo lavoro, in considerazione della mia profonda ignoranza in materia. Mi limito a citarlo per completezza di informazione.
Altre considerazioni possono essere fatte riguardo al colore del mantello ed all’opportunità di avere accesso a zone di ombra e ventilate per gli animali.
Comunque sia, l’impressione è che si stia lavorando più su tipi genetici più resistenti e su diete più compatibili con i climi caldi piuttosto che all’ormai poco affidabile tentativo di ridurre i gas serra, per lo meno nell’attuale breve periodo caratterizzato dai problemi ben più gravi conseguenti al conflitto in Ucraina, dalle conseguenze difficilmente prevedibili.