Da settimane in Australia si discute su quanto sia più o meno opportuno lasciare che la Repubblica Popolare Cinese metta i soldi (e le mani) sulle risorse che fino ad oggi hanno permesso all’Australia di crescere, ma è chiaro ormai che il governo la sua scelta l’ha già fatta ed è tutt’altro che anti-cinese. Per quanto solo il 6,16 per cento del territorio australiano sia classificato come “coltivabile” e solo lo 0,05 % dello stesso sia effettivamente utilizzato (percentuali bassissime rispetto, ad esempio, alla Cina - 11,62 / 1,53 % - o all’Italia - 22,57 / 8,37 % -), quando gli ettari vengono quantificati in chilometri quadrati anziché in quote percentuali l’Australia sale immediatamente sul podio della classifica dei principali produttori di generi alimentari, dopo Cina e Stati Uniti.
In genere il peso del settore agricolo sull’economia Australia viene oscurato dal contributo in termini di Pil generato dalle esportazioni di materie prime. Tuttavia, da quando il suo principale partner commerciale, la Cina, ha messo gli occhi sulle coltivazioni nazionali, Canberra ha iniziato a valutare con attenzione l’ipotesi di autorizzare lo shopping incondizionato di terreni cui Pechino è oggi così interessata. Però, in una fase in cui tante delle industrie storiche del paese sono state costrette a chiudere e chi è riuscito a sopravvivere soffre a causa di un costo del lavoro che, nel lungo periodo, rischia di strangolare l’intero comparto manifatturiero nazionale, l’idea di lasciare campo libero al land grabbing cinese ha fatto sollevare più di un sopracciglio.
Dal punto di vista di tanti piccoli e medi imprenditori, infatti, se la Repubblica popolare si trova nella condizione di dover aumentare drasticamente la sua quota di importazioni di generi alimentari, perché non approfittarne creando anche nuove linee di produzione destinate in maniera esclusiva al mercato cinese? Se a Pechino venisse lasciata la possibilità di acquistare interi territori (come ha fatto poco più di un anno fa in Ucraina, dove si è assicurata il controllo di un appezzamento da tre milioni di ettari nell’area attorno a Dnipropetrovsk, la terza città della nazione), invece, sarebbero certamente imprenditori e lavoratori australiani a rimetterci.
Oggi tuttavia in Australia inizia ad esserci più spazio anche per la Repubblica popolare, nonostante quest’ultima non sia ancora riuscita a scrollarsi di dosso la reputazione di “partner pericoloso”, in virtù dell’abitudine a imporre l’esportazione degli output generati dalle sue “farm all’estero” verso la Cina non solo in via esclusiva, ma anche a prezzi di favore.
Eppure, se l’Australia vuole rimanere competitiva e sfruttare i benefici di una domanda di generi alimentari che in Asia è destinata a raddoppiare nel giro di pochi anni non può permettersi di snobbare gli investimenti esteri in base alla loro provenienza. Il 95% delle fattorie che ci sono nel paese sono gestite a livello familiare, ma le più produttive sono quelle che hanno abbandonato questo modello, proprio grazie all’aiuto degli stranieri.
Da Corriere.it, 18/10/2014