In quella che sembra purtroppo essere solo una pausa nelle alterne fasi della pandemia la ripresa economica iniziata nell’ultimo trimestre del 2020 e proseguita con un buon andamento sino ad oggi, ha prodotto risultati importanti, come la risalita del Pil dell’Italia nel 2021 del 6,6%. Un risultato importante, forse di proporzioni inaspettate, realizzato con le sole condizioni esistenti nel nostro sistema economico, prima cioè che i massicci interventi previsti dal Pnrr avessero potuto iniziare a produrre effetti. Nell’insieme degli elementi positivi, tuttavia, è emersa con forte risalto anche la ripresa dell’inflazione, non solo in Italia, ma in tutte le economie avanzate che hanno trainato la ripresa stessa. Il tasso di inflazione nel 2021 si è collocato negli Usa al +7%, in Europa oltre il +5% ed in Italia a +3,9%. Ma già a gennaio e, nelle previsioni a febbraio, sale a +5%. Alla base di questa dinamica si colloca la crescita dei prezzi dei prodotti energetici che sale da +29,1% di dicembre a +38,6% di gennaio, in particolare per i prodotti regolamentati (rispettivamente a +41,9% e a +93,5%) mentre si ferma a +22%/23% per gli energetici non regolamentati, seguiti dagli alimentari lavorati (al +2,0% e +2,4%) e a quelli non lavorati (a +3,6% ed a +5,4%). L’inflazione di fondo, al netto degli energetici e degli alimentari freschi, rimane stabile a +1,5%. Il quadro complessivo fa riemergere l’incubo dell’inflazione anche se ha origini concentrate in alcuni settori e legate in gran parte alla immediatezza della ripresa che ha prodotto squilibri nei rapporti domanda/offerta, aggravate dalle difficoltà della ripartenza provocate da colli di bottiglia e interruzioni nelle catene produttive che sono spiegabili e dovrebbero essere riassorbite.
Lo scoppio violento del conflitto Russia/Ucraina ha sconvolto ogni previsione, sia per gli inevitabili problemi di approvvigionamento sia per le possibili ripercussioni dei meccanismi innescati dalle sanzioni applicate alla Russia e alle conseguenti ritorsioni. La localizzazione del conflitto fa sì che i prodotti più colpiti siano quelli energetici e in particolare il gas e il petrolio russi e i prodotti agricoli, cereali e oleaginose, dell’Ucraina.
Le sanzioni colpiscono nel caso dell’interscambio Russia/Italia proprio gli approvvigionamenti energetici. Noi importiamo dalla Russia il 42% del gas e circa il 35% del petrolio che usiamo, dunque il nostro Paese rischia, più di altri, una grave crisi energetica e un crescente costo delle materie prime anche agricole.
La titubante politica energetica dell’Italia con l’abbandono del nucleare e la quasi compiuta eliminazione del carbone poggia su una diversificazione che si limita al gas e al petrolio con ciò esponendoci a una pericolosa instabilità, anche in considerazione della squilibrata ripartizione delle fonti di approvvigionamento ed al mancato ricorso ai giacimenti italiani di gas e di petrolio. Le energie rinnovabili sono in gran parte quelle idroelettriche che risalgono agli inizi del ‘900, mentre il contributo dell’eolico e del solare è minimo e limitato dalla irregolarità della produzione e dalla ridotta gestibilità dell’energia prodotta.
Il problema di fondo non risolvibile in tempi brevi, è la assurda politica energetica nazionale, peraltro sostenuta da un irresponsabile ma diffuso consenso dell’opinione pubblica. Fra inflazione e conseguenze del conflitto è evidente che il problema energetico va ben oltre la questione delle “bollette” per investire il destino della nostra economia basata sul settore manifatturiero che ha bisogno di energia abbondante e a basso costo.
La situazione è molto simile a quella della produzione agricola, l’altro comparto colpito dall’incremento dei prezzi e dalla necessità di importazioni crescenti. Anche se la bilancia degli scambi è in attivo perché non si limita alle sole materie prime ma comprende i prodotti lavorati, non deve essere sopravalutata. La componente materie prime agricole è in cronico passivo, mentre da alcuni anni è passata in attivo quella dei prodotti trasformati. In condizioni normali e per prodotti manifatturieri meno essenziali, tutto ciò potrebbe funzionare, ma come il confronto con il settore dell’energia dimostra, non può essere esteso all’agro/alimentare per l’insostituibile funzione che esso ha.
Negli ultimi anni la produzione agricola italiana si è contratta in quantità ed anche l’export è limitato ad ambiti specifici e sostenuto dalle esportazioni di vino che portano in attivo la bilancia. Ciò costringe ad importare quantitativi crescenti di materia prima specialmente per le grandi colture agricole come i cereali, in particolare frumento, tenero e duro, e mais, oltre alle oleaginose, in particolare soia. Se ancora negli anni ’90 la produzione interna di mais permetteva di alimentare un ridotto flusso di esportazione e quella di frumento di contenere le importazioni in circa un terzo del fabbisogno di grano duro, peraltro destinato a produrre un equivalente quantitativo di pasta esportata, oggi l’Italia importa circa il 50% del suo fabbisogno di mais, il 35% del grano duro ed il 64% del tenero. Le prospettive di ripresa produttiva sono minate alla base dalla politica agricola europea basata sulle linee del documento “Farm to fork” e da un ecologismo anti-produttivista che è stato criticato da più parti per le conseguenze che può avere sull’approvvigionamento alimentare europeo e mondiale.
Il sorgere improvviso dell’emergenza sanitaria legata alla pandemia aveva indotto molti a sollecitare una revisione delle strategie di politica agraria per disporre di cibo in quantità e qualità idonee a soddisfare i nostri fabbisogni interni senza aggravare quelli del pianeta. Oggi, con l’insorgere dell’emergenza dettata dalla guerra in Europa e con il fallimento della politica energetica a far da monito, il problema della politica agraria si pone imperiosamente. Nel Consiglio dei Ministri Agricoli dell’Ue dei primi di marzo si è affrontato il problema con una volontà comune condivisa dal Commissario all’agricoltura, il polacco Wojciechowski. Il Consiglio ne riparlerà il 21 marzo prossimo per prendere decisioni. Una presa d’atto importante e bene accolta dal mondo agricolo europeo, ma già riemergono vincoli e ritorni al modello “Farm to fork” che fanno temere non ci si renda conto della gravità del problema.
Oltre ai danni del non avere una vera politica energetica, temiamo che accadrà lo stesso con quella agricola. Il tempo stringe. Occorre agire per evitare il ripetersi di questi fallimenti e mettere in sicurezza l’alimentazione. Dobbiamo chiederci che cosa accadrà alla prossima emergenza, sanitaria o economica.