Tutta la cosiddetta “ingredientistica innovativa” presenta aspetti non regolati, sui quali gli operatori si trovano privi di un quadro normativo di riferimento, sia europeo che nazionale. Ne deriva una scarsa propensione a utilizzarli e, soprattutto, a “fare business” in un segmento produttivo che potrebbe portare a miglioramenti qualitativi di importanti alimenti e interessanti opportunità di mercato, se regole più definite consentissero maggiore certezza di legalità.
Un esempio è rappresentato dai cosiddetti “colouring foods”, ingredienti con proprietà coloranti, i quali non sono additivi ma in qualche misura ne condividono la funzione: «coloring food with foods». La tendenza è globale. Secondo lo US Institute of Food Technologists, oltreoceano «major food companies are removing synthetic color additives from their products and replacing them with natural colors to appeal to consumer demand» [N. H. Mermelstein, Coloring Foods and Beverages, in Food Technology Magazine, 1 January, 2016]. Gli USA rispondono a tale domanda del mercato (a) classificando tutte le sostanze aventi proprietà coloranti come “additivi” a prescindere dalla loro natura, origine e modalità di ottenimento; (b) prevedendo per quelle derivate da vegetali, animali o minerali una disciplina “semplificata” che, in luogo della “certificazione” della FDA richiede solo la loro conformità a specifiche generali stabilite dalla legge (Section 21, part 73, del Code of Federal Regulation). In sostanza, negli USA la disciplina degli ingredienti con proprietà coloranti è particolarmente rigorosa, ma anche ben definita, qualificandoli tutti come additivi ma con minori oneri per quelli di derivazione naturale.
L’approccio europeo è decisamente differente, e alquanto confuso. Il punto di partenza, nell’UE, è una definizione (e una disciplina) dell’“additivo alimentare” che
- da un lato, per aversi additivo, esige trattarsi di una sostanza abitualmente non consumata come alimento in sé e non usata come ingrediente caratteristico di alimenti (così il reg. CE n. 1333/2008), il che già esclude dalla categoria degli additivi una lunga serie di ingredienti, anche con forte potere colorante (es. succo concentrato di mirtillo, di ciliegia, ecc.);
- dall’altro non fa alcuna differenza fra additivi derivati da materie prime naturali (vegetali, animali o minerali) o da processo di sintesi chimica, sicché fra i coloranti autorizzati troviamo tanto molecole sintetiche quanto sostanze di derivazione naturale (es. carotenoidi, antocianine, cocciniglia, ecc.).
L’ovvia conseguenza, per il giurista, è che una distinzione ai fini legali tra coloranti (additivi) e colouring foods non può basarsi sulla naturalità o meno del materiale di partenza. Il regolamento sugli additivi finisce per attribuire un ruolo-chiave al concetto (in realtà ambiguo e non definito) di “estrazione selettiva”: «Sono coloranti ai sensi del presente regolamento le preparazioni ottenute da alimenti e altri materiali commestibili di base di origine naturale ricavati mediante procedimento fisico e/o chimico che comporti l’estrazione selettiva dei pigmenti in relazione ai loro componenti nutritivi o aromatici». La difficoltà di mettere compiutamente a fuoco questa nozione è evidente: letteralmente, essa sembrerebbe implicare l’isolamento, da una matrice più complessa (es. un succo, un infuso), delle sole molecole aventi funzione tecnologica. Il caso dei colouring foods, però, mette subito in luce tutte le sue ambiguità (dovute anche al fatto che manca una definizione in quelle norme che pure la utilizzano).
In assenza di una regolamentazione uniforme, il solo documento ufficiale che tenta di codificare una prassi applicativa in materia, cercando di stabilire un discrimine fra ingredienti coloranti additivi (soggetti ad autorizzazione) e colouring foods (di utilizzo “libero”), sono ancora le «Guidance notes on the classification of food extracts with colouring properties», elaborate dallo Standing Committee on the Food Chain and Animal Health il 29 novembre 2013. Mero atto di soft law, privo cioè di efficacia vincolante, in esso – come sovente avviene per gli aspetti non normati della legislazione alimentare – è dato rinvenire un vero e proprio completamento di quelle lacune della disciplina che non si ricavano prima facie dalla lettura della norma, ma che emergono solo dalla sua applicazione pratica. È così che tale documento si propone di facilitare la classificazione degli estratti a uso alimentare distinguendoli fra coloranti e “ingredienti con proprietà coloranti”; di fornire criteri per differenziare fra “estrazione selettiva” e “non selettiva”; di chiarire il cosiddetto “fattore di arricchimento”; di offrire agli operatori alcuni utili strumenti come un “decision tree” e una “check-list” che fungano da ausilio nella valutazione concreta delle sostanze per comprendere come classificarle; e, infine, di elencare anche i materiali di base da cui i colouring foods possono estrarsi.
Ed è così che, inoltre, si “scopre” che – se da un lato mancano totalmente regole vincolanti sulla loro individuazione (rispetto ai coloranti-additivi) – dall’altro la loro esistenza come categoria legale di prodotti non può essere negata, perché l’art. 3 del reg. CE n. 1333/2008 esclude dalla nozione di additivi (e dunque di coloranti) «gli alimenti, essiccati o concentrati, compresi gli aromi, incorporati durante la fabbricazione di alimenti composti per le loro proprietà aromatiche, di sapidità o nutritive associate a un effetto colorante secondario». Inoltre, si evince che la stessa concentrazione “spinta” oltre un certo rapporto (rispetto ad altri costituenti del materiale di base) viene considerata alla stregua dell’estrazione selettiva dei pigmenti (benché, di fatto, vera e propria “estrazione” in senso letterale non sia, e nel prodotto siano presenti anche sostanze diverse dai pigmenti), mentre qualsiasi alimento estratto con procedimenti diversi dalla concentrazione o dalla essiccazione non può considerarsi automaticamente un colouring food, solo per il fatto di derivare da una base “naturale”, ma dev’essere valutato secondo un approccio caso-per-caso.
Seguono criteri interpretativi per valutare se una determinata estrazione debba considerarsi “selettiva” o meno, sul “fattore di arricchimento”, ecc., mentre l’elenco dei materiali (il previsto “Allegato III” delle “Guidance notes”) non è mai stato completato ufficialmente: un elenco provvisorio è stato incluso nel Technical Report del Joint Research Centre della Commissione europea dal titolo «Provision of scientific and technical support with respect to the classification of extracts/concentrates with colouring properties either as food colours (food additives falling under Regulation (EC) No 1333/2008) or colouring foods» (EU 2015).
Senza entrare ulteriormente nel dettaglio, appare evidente che, per quanto il regime legale degli USA possa apparire restrittivo, esso è però più nitido, stabilendo un elenco di materiali di base “naturali” tassativo e chiaro, prevedendo una disciplina più “leggera” per gli estratti da essi ottenuti con procedimenti ben identificati e, in definitiva, offrendo alle imprese più innovative un quadro di riferimento chiaro.
Al contrario, in Europa gli operatori che vogliano cimentarsi nel mercato relativo a questa tecnologia alimentare si confrontano quotidianamente con un regolamento che menziona i colouring foods senza definirli, lascia intendere che le caratteristiche dell’estrazione (intesa come processo e come risultato) possono essere discriminanti per decidere se una sostanza sia o meno un colorante (additivo), ma poi non indica espressamente criteri certi per distinguere l’estrazione selettiva da quella non-selettiva e, infine, affida soltanto ad una complessa “Linea guida” non vincolante, “adottata” da un organo ausiliario della Commissione (il citato Standing Committee), ogni metro di valutazione e di classificazione di un ingrediente al fine di comprendere se vi si applichi il reg. CE n. 1333/2008 o se la sua commercializzazione e il suo impiego alimentare siano, invece, “liberi”.
Tra l’altro, si tratta di “Guidance notes” di limitato accesso e difficile reperibilità, redatte soltanto in lingua inglese, per ciò stesso non riconosciute da alcune amministrazioni nazionali (come quella tedesca), che rivendicano così il diritto di valutare gli ingredienti in questione con criteri propri. Un documento al quale è inoltre premessa una lunga serie di “disclaimer”, come ad esempio: «These Guidance notes do not represent the official position of the Commission».
Qual meraviglia se nell’UE sono poche le imprese disposte ad avventurarsi in costose ricerche e test per nuovi ritrovati coloranti di fonte naturale, diversi dagli additivi?
Sulle Guidance notes relative ai colouring foods v. A. Reinhart, Colouring Foods versus Food Colours: Guidance Notes on the Classification of Food Extracts with Colouring Properties, in European Food and Feed Law Review, Vol. 9, No. 2 (2014), pp. 105-113.