Nella seduta del 2 dicembre 2021 il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Unione europea hanno approvato il Regolamento 2021/2117, che ha modificato il vecchio Regolamento 1308/2013 relativo ai prodotti vitivinicoli, in cui si stabiliva che la “denominazione di origine” serve a designare un vino ottenuto “da varietà di viti appartenenti alla Vitis vinifera”. La nuova disposizione comunitaria stabilisce ora che la “denominazione di origine” serve a designare un vino ottenuto “da varietà di viti appartenenti alla specie Vitis vinifera o da un incrocio tra la specie Vitis vinifera e altre specie del genere Vitis”.
Sotto il profilo normativo, le conseguenze in Italia della modifica del Regolamento Ue dovrebbero essere la abrogazione del D. L. 61/2010 e della legge 238/2016, secondo cui i vitigni da incrocio tra la Vitis vinifera ed altre specie di vite possono essere utilizzati solo per la produzione di vini da tavola e di vini a denominazione geografica tipica (Igt). Scomparirebbe quindi la discriminante che ha finora limitato l’impiego enologico di tali vitigni, e per quelli già iscritti al Registro Nazionale delle Varietà di Vite dovrebbe essere cancellata la annotazione “uve non utilizzabili per i vini a denominazione di origine”.
Il nuovo Regolamento Ue è certamente in linea con il principio della sostenibilità ambientale voluto dalla Pac, ed ha lo scopo di consentire ai produttori un più ampio utilizzo delle varietà di viti incrociate con la vinifera, che presentano una maggiore resistenza alle malattie. E’ quindi opportuno chiedersi quale sarà l’impatto di questa liberalizzazione sulla sostenibilità della viticoltura italiana nel suo complesso, tenendo conto anche delle esperienze che l’Italia ha già fatto e sta facendo con i vitigni ibridi di nuova generazione nelle aree che producono vini da tavola e Igt.
Con riferimento a tali aree dobbiamo prima di tutto ricordare che nonostante sia universalmente condivisa l’importanza delle varietà “resistenti” alle malattie crittogamiche per rendere più ecologica la coltura della vite, il loro impiego è ancora molto limitato. Nelle regioni in cui, a partire dal 2013, molti ibridi sono stati ammessi alla coltura (Province autonome di Trento e Bolzano, Friuli- Venezia Giulia, Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna, Abruzzo), le superfici in produzione impiantate con tali vitigni ammontano ad appena 700-800 ettari, e costituiscono una quota irrisoria (0,2-0,3%) della superficie italiana che produce vino da tavola e Igt, stimabile attorno a 350.000 ettari (cioè circa la metà della superficie totale investita ad uva da vino, che oggi si aggira sui 670.000 ettari). È evidente che il ricorso all’impiego dei vitigni “resistenti” sul territorio nazionale non è generalizzato, ma è spesso legato a situazioni particolari (come ad es. in Veneto), dove molte varietà ibride sono state impiantate in zone ristrette e definite, con funzione di cuscinetto a difesa di aree urbanizzate ad elevata densità di popolazione. In altre regioni, dove ciò non è necessario, le motivazioni del loro ridotto uso possono essere diverse, ad esempio rapportabili alla scarsa flessibilità dei viticoltori, che guardano con sospetto le varietà “nuove”, considerate qualitativamente inferiori rispetto ai vitigni locali che da sempre identificano il territorio.
Considerando quanto sopra e la situazione attuale delle aree per vini da tavola ed Igt, è facile prevedere che anche la libertà di impiego dei vitigni ibridi nelle Doc darà, quantomeno in tempi brevi, un contributo marginale alla riduzione dell’inquinamento da fitofarmaci. Infatti, presso i Consorzi di tutela delle Doc le discussioni su come applicare il Regolamento comunitario saranno lunghe e difficili, poiché i soci dovranno deliberare su alcune importanti questioni di fondo: la prima sarà la rinuncia prioritaria alla storica “rigidità” delle piattaforme ampelografiche che caratterizzano molte aree a denominazione di origine, generalmente superiore a quella delle aree non Doc. Ogni Consorzio dovrà poi decidere quanto sia utile ed opportuno inserire una varietà ibrida in un disciplinare da sempre limitato ai vitigni europei; l’inserimento sarà quasi certamente necessario in alcune delle aree più settentrionali della penisola, dove per la gestione della vinifera sono utilizzati 12-15 trattamenti annuali per la difesa da oidio e peronospora, ma sarà forse ritenuto meno essenziale nelle zone del Centro-Sud, dove è più bassa la pressione delle malattie fungine.
La seconda questione verterà sulla scelta della varietà resistente, che secondo il parere di molti operatori dovrà avere caratteristiche agronomiche, chimiche e organolettiche riconducibili in modo certo e oggettivo al vitigno di base del singolo disciplinare. L’accertamento di questo requisito sarà un punto fondamentale delle discussioni, perché una varietà ibrida, anche se identificata col nome aggettivato del vitigno “nobile” principale della Doc, sarà comunque una varietà nuova e diversa e dovrà essere prioritariamente valutata in modo positivo dalle stesse Doc nell’areale specifico in cui dovrà essere introdotta. Un ulteriore argomento di discussione verterà sulla percentuale di inserimento della nuova varietà nel disciplinare, che dovrà essere limitata (5-10-15%?) per non modificare la tipicità della produzione enologica.
In pratica, è quindi presumibile che passeranno diversi anni prima che una quota importante della superficie italiana a Doc integri i disciplinari accogliendo le varietà ibride, ma se anche la loro diffusione non sarà rapida e generalizzata, questo non toglierà assolutamente importanza alla funzione primaria dei vitigni resistenti: analogamente a quanto è avvenuto ed avviene nelle aree non Doc, il loro impiego sarà fondamentale per migliorare la qualità dell’ambiente in zone definite.
Sotto l’aspetto tecnico, i vivaisti italiani sono già in grado di produrre milioni di barbatelle innestate con le varietà ibride, e alla luce di questo è possibile riconsiderare la iniziale domanda sull’impatto che le nuove norme comunitarie potranno avere sulla sostenibilità della viticoltura italiana. Pur ammettendo che in una auspicabile ipotesi nel giro di pochi anni tutte le aree viticole Doc e non Doc utilizzino le varietà ibride sul 15% dei loro impianti, questo significherebbe che sulla superficie totale investita ad uva da vino (670.000 ettari) il consumo degli anticrittogamici potrebbe al massimo ridursi del 10%, un risultato importante, ma non certo risolutivo nei confronti dell’impatto ambientale di cui la viticoltura è ritenuta responsabile.
Esistono possibili alternative? Rispetto all’incrocio interspecifico ricorrente, volto a selezionare varietà ibride con caratteri “simili” alla vinifera, la risposta potrà essere data dalla diretta applicazione alla Vitis vinifera del “genome editing”, una tecnica rivoluzionaria, che sostituendosi alla mutagenesi naturale riuscirà ad ottenere accessioni “resistenti” dei migliori e più diffusi vitigni del nostro paese, quali il Sangiovese, il Montepulciano, il Glera e moltissimi altri, che spesso rappresentano più dell’80% della base ampelografica dei rispettivi disciplinari. Le piante mutate non saranno OGM ma “cloni” dei singoli vitigni, meno sensibili alle fitopatie, ma con immutate qualità agronomiche e tecnologiche.
Le ricerche in questo settore sono già molto avanzate presso i nostri migliori centri di ricerca (Università, Crea, Istituzioni private) e le notizie di questi mesi indicano che sono già stati rigenerati embrioni somatici di diversi vitigni appartenenti alla vite europea, un passo fondamentale per ottenere mutazioni mirate alla tolleranza o alla resistenza nei confronti delle principali malattie fungine. È pur vero che la direttiva 18/2001 della Corte di Giustizia Europea ha equiparato agli OGM gli organismi ottenuti con il genome editing, che, come tali, non sono ammessi alla coltura nelle nazioni Ue, ma questa anacronistica posizione, sbagliata sotto il profilo genetico, dovrebbe essere superata nel corso di questo stesso 2022. Se ciò avverrà, i primi “cloni” resistenti di alcuni importanti vitigni italiani di Vitis vinifera potranno essere omologati e disponibili sul mercato nei prossimi quattro o cinque anni.
Considerando che la vita media di un vigneto si aggira sui 25-35 anni, è quindi possibile ipotizzare che nel 2050 molte aree Doc e non Doc avranno rinnovato una parte della superficie a vigneto con i cloni resistenti dei loro principali vitigni, che dovrebbero poter essere scelti con le stesse modalità di qualsiasi altro clone omologato, senza i problemi burocratici che incontrano le nuove varietà da incrocio per l’ammissione alla coltura.
Sono convinto che soltanto con la possibilità giuridica di applicare liberamente le nuove tecnologie genetiche la viticoltura italiana si metterà progressivamente in linea con il modello preconizzato dalla Pac, che richiede un significativo abbattimento nel consumo dei presidi fitosanitari (50-70% in meno) e una concreta riduzione dell’inquinamento ambientale.