I colleghi dell’Università di Firenze e dell’Accademia dei Georgofili hanno tracciato un quadro biografico completo degli studi e della lunga e proficua carriera accademica e scientifica di Piero Pisani, senza trascurare un commosso ritratto degli aspetti umani e culturali, che tanto lo caratterizzavano. Non posso che condividere in pieno quanto scritto a caldo da Elvio Bellini, Francesco Ferrini e Paolo Nanni. Vorrei tuttavia colmare una importante lacuna: i rapporti stretti e proficui tra Piero e l’Università di Pisa, tramite l’Istituto di Coltivazioni Arboree divenuto poi Dipartimento di Coltivazioni e Difesa delle Specie Legnose.
Non si può valutare appieno l’amore di P. L. Pisani per la ricerca scientifica e il suo interesse profondo per le indagini fisiologiche, mai disgiunto dall’esame degli effetti pratici e tecnologici che tali studi finivano per avere sul mondo economico e sociale, se non si considera la sua generosa e volontaria attività di collaborazione con i colleghi delle altre Università italiane.
Piero era un ricercatore completo, unico: una mente vivace: gli piaceva il confronto delle idee, discutere su quelle nuove e suscettibili di sviluppo, indagare a 360° su aspetti che tutti davano per scontati, capire, sia pure con le scarse attrezzature dell’epoca, le ragioni profonde per cui certi fenomeni avvenivano, avvalendosi delle competenze più varie. Era soprattutto un coordinatore. Gli piaceva mettere a confronto esperienze diverse, completando in tal modo le inevitabili carenze tecniche dei singoli ricercatori. Ma la sua mente spaziava sempre su aspetti molto differenti della cultura: storia, filosofia, religione, poesia, letteratura, tradizioni popolari.
Quando lavoravamo insieme ed arrivavamo in Istituto alle 8, trovavamo Piero in biblioteca, preso in qualche accesa discussione con Filiberto sulle strategie migliori per ottenere i finanziamenti necessari alla prosecuzione delle ricerche. Oppure solo soletto intento nella lettura di qualche rivista internazionale. Non poteva mancare qualche battuta sul tempo sprecato nel sonno o dietro le giovani mogli. Le prime ore erano le più proficue, non desiderava perdere tempo in chiacchiere inutili. Si faceva portare una risma di carta economica, matite e una gomma (che non usava mai). Esaminava velocemente, ma con attenzione, le tabelle e i grafici che avevamo preparato, quindi prendeva con autorevolezza la guida del gruppo. Non c’era una prima bozza, il suo pensiero si presentava già perfetto, senza correzioni, chiaro ed elegante: era come se lo copiasse direttamente sulla carta. Noi della vecchia guardia vi riconoscevamo la scuola di Franco Scaramuzzi, pur con alcuni tratti di elegante originalità che avemmo modo di ritrovare e apprezzarli nei suoi successivi scritti letterari.
Era l’idolo delle dattilografe, non solo per la sua gentilezza, ma anche per quei testi privi di correzioni e scritti con una calligrafia chiara e ben leggibile. Anche in questo era un Maestro, molti di noi hanno imparato da lui la sinteticità e la precisione nella redazione dei testi.
Poi, a metà mattinata, quando tutti aspiravano alla pausa caffè, lasciava il tavolo e scendeva ai laboratori ed alla serra, chiedendo informazioni sulle prove in corso. Aveva sempre qualche suggerimento o parole di incoraggiamento per i colleghi più giovani. La passeggiata si concludeva alle celle frigorifere dove sceglieva una bella mela e la addentava voracemente. Era quella la sua colazione! Allora, con i più intimi, usciva fuori il Pisani segreto: prendeva spunto da una parola tipicamente toscana per citare i versi di Iacopone da Todi, oppure una novelletta del Bandello.
Ma il momento migliore era durante la pausa del pranzo, davanti a un piatto di minestrone o di ribollita. Piero era molto parco. Apprezzava la cucina povera, ma dedicava la maggior del tempo alla conversazione, incurante dei rumori e delle risa degli studenti e dei giovani ricercatori che affollavano quella trattoria popolare dalle economiche tovaglie di carta. Quando capiva di avere di fronte la persona adatta, il dialogo si apriva su argomenti inattesi: confidava i suoi sogni e le sue letture. Era un’anima inquieta alla continua ricerca delle motivazioni più profonde della vita, affascinato da S. Francesco di Assisi di cui citava il Cantico delle Creature. Mi consigliava di leggere le Confessioni di Sant’Agostino, libro ponderoso e molto stimolante che lo impegnava da diverso tempo. Mi parlava poi delle tradizioni popolari dell’alta Valtiberina, di Pieve S. Stefano, divenuta città del Diario, invitandomi a inviare a quella istituzione le memorie della vita dei miei nonni boscaioli che in quegli anni stavo raccogliendo. Aveva grande ammirazione per la cultura e la fede delle popolazioni contadine e, nei rari momenti liberi, andava in giro per le montagne della Valtiberina a rintracciare, fotografare, studiare i materiali e descrivere le cappelline, dette anche, a seconda delle caratteristiche costruttive, mestadine, edicole, tabernacoli, marginette, capitelli. Tali costruzioni, che avevano radici in antiche tradizioni pagane, testimonianza della religiosità delle popolazioni locali, erano state costruite dai montanari con grande sacrificio, bravura tecnica e senso artistico nei punti più difficili e pericolosi di quei sentieri appenninici, per la maggior parte risalivano ai secoli XIX° e XX°. Adesso le mestadine erano quasi tutte dimenticate, abbandonate e cadenti.
Intorno agli anni 1960 una nuova concezione di frutticoltura cominciò a farsi strada in molti Paesi: piante di mole ridotta, a rapida messa a frutto, con limitato ciclo produttivo, compensando con il maggior numero di piante per ettaro, la minor produzione per pianta. In California e nello stato di Washington per questo scopo si svilupparono mutazioni compatte di melo, i cosiddetti meli spur. In Australia e Nuova Zelanda si mirò agli stessi obiettivi proponendo innovative forme di allevamento che consentivano una forte intensificazione degli impianti.
Queste idee si diffusero presto anche nel nostro Paese: nelle principali aree frutticole italiane si accese una corsa affannosa verso quello che sembrava un nuovo Eldorado. Impianti fitti con piante di taglia ridotta che si caricavano fin dai primi anni di grossi e attraenti frutti e rapida sostituzione delle tradizionali pesche tomentose con bellissime nettarine dalla epidermide liscia. Sembrò che queste soluzioni fossero più consone alla tradizione italiana, basata prevalentemente sulla abilità tecnica dei potatori romagnoli. Una più naturale e meno rischiosa alternativa ai fitoregolatori chimici proposti con scopi diversi dalle multinazionali anglo-americane.
Ma le risposte non furono ovunque, tutte e sempre quelle desiderate. Quali erano le cause dei risultati così diversi? Le nettarine, specialmente negli impianti ad elevata densità, presentavano problemi di irregolare allegagione e una forte sensibilità alle malattie crittogamiche che ne alteravano l’attrattività. La vigoria dei meli spur sembrava risentire fortemente delle condizioni climatiche, tanto da suggerire in molti casi l’adozione di portinnesti diversi.
Il tema, particolarmente sentito per i meli spur, scatenò l’interesse di Piero che, con il suo consueto entusiasmo e con la inesauribile energia prese contatto con numerosi frutticoltori che sulla base anche di personali rapporti con le stazioni di ricerca neozelandesi avevano cercato di riprodurne i modelli in differenti ambienti climatici della Penisola. (L’Istituto di Coltivazioni Arboree di Pisa aveva da alcuni anni accumulato esperienze sugli impianti fitti di pesco sia nella Maremma toscana che nei terreni morenici del veronese). Egli, sollecitando la collaborazione dei ricercatori dell’Università di Padova, di Bologna e di Pisa e quelli della Scuola di Frutticoltura di Laimburg (Ora, Bolzano), attivò una serie di prove di comparazione collegiali in ambienti estremamente diversi: Alto Adige, Veronese, Emilia Romagna, Pianura pisana e Maremma toscana. In tali impianti, tutti costituiti con identico materiale genetico e con il medesimo schema sperimentale, furono posti a confronto 2 cultivar di melo spur a diverse distanze di impianto, allevate secondo alcune nuove forme di allevamento, in comparazione con forme tradizionali. Per un quinquennio furono raccolti dati climatici e sul comportamento vegetativo e produttivo delle piante delle diverse tesi. Ci volle tutto l’entusiasmo e le capacità organizzative di P.L. Pisani per superare le inevitabili differenze e diffidenze delle varie Unità operative, giungendo così alla presentazione dei primi risultati al XIX° International Horticultural Congress di Varsavia nel 1974.
Tale ricerca, condotta in ambienti climaticamente diversi, portò a concentrare l’attenzione sul microclima all’interno della chioma delle piante ed in particolare sull’effetto dell’irrigazione climatizzante sulla fotosintesi, sullo sviluppo e caratterizzazione dei frutti, sulla induzione fiorale e sulla fioritura e allegagione. L’Unità di Padova studiò l’effetto di tali interventi nel periodo estivo al fine di rendere maggiormente efficace la fotosintesi e la distribuzione dei soluti, l’Unità di Pisa si occupò del fabbisogno termico delle gemme a fiore su diverse specie di fruttiferi (melo, pesco, albicocco, vite) e sulla possibilità mediante l’irrigazione climatizzante di sottrarre calore in fase di prefioritura per ritardare l'antesi, nonché gli effetti sulla maturazione dei frutti. Le due Unità, tramite il Prof. Pisani, progredivano in parallelo scambiandosi preziose informazioni sulle tecniche e sui risultati volta a volta raggiunti.
Alcune importanti comunicazioni sono state presentate a convegni internazionali, attirando per la loro novità l’attenzione dei ricercatori israeliani e dell’Utah, che a quel tempo, unici al mondo, lavoravano su quei temi. Esse costituirono come il passaporto scientifico che permise al Prof. Pisani di approfondire le conoscenze nell’ambito degli effetti dell’irrigazione climatizzante mediante un periodo di visiting professor a Logan (Utah), saldando maggiormente i contatti e lo scambio di informazioni tra i ricercatori di tale Università con quelli di Pisa che hanno continuato a occuparsi dell’argomento e dello sviluppo di nuovi modelli bioclimatici nell’ambito di una ricerca trans-mediterranea con finanziamento europeo.
Allorché il Prof. Pisani a Firenze passò alla cattedra di Viticoltura intraprendendo una articolata serie di ricerche nel Chianti allo scopo principalmente di rinnovare l’ormai statica viticoltura chiantigiana, chiamò a collaborare alcuni ricercatori di Pisa, tra cui il compianto Giancarlo Scalabrelli. Le ricerche durate un notevole numero di anni avevano diversi obiettivi, quali l’impiego di nuovi cloni dei principali vitigni, nuovi portinnesti, forme di allevamento, tecniche di potatura e distanze di impianto, ma soprattutto saggiare le possibilità di spingere fino ai limiti più estremi la modernizzazione e la meccanizzazione dei vigneti di tale ambiente. La novità delle soluzioni proposte non incontrò il favore dei viticoltori locali che ancora non avevano sentito il morso della concorrenza ed imparato che la sperimentazione deve essere sempre in movimento: qualche passo avanti alla realtà. Ma l’interesse di Piero Pisani era ormai rivolto verso lo studio delle tradizioni storiche, religiose e linguistiche della Valtiberina, che maggiormente soddisfacevano la sua sete di cultura.