Una recente giornata di studio sui danni da fauna selvatica all’agricoltura ha ripreso un argomento che viente trattato e ripetuto da almeno 30 anni. Di nuovo, caso mai, c’è stato il livello di approfondimento.
Tutta questa annosa questione è sorta attorno al 1970, dopo la constatazione che all’interno delle Foreste Demaniali veniva brucata tutta la rinnovazione delle specie arboree e, in particolare, quella dell’abete bianco che, notoriamente, è una specie in stato di recessione. Era questa, però, una vicenda interna alle Foreste Demaniali che, poi, si sono ritenute libere di promuovere la biodiversità nel modo che credevano più opportuno, cioè senza far niente.
Poi le popolazioni di animali selvatici si sono fatte più numerose e hanno preso a sconfinare abbondantemente nei terreni dei privati danneggiando le colture.
Non è più questione di danni da risarcire singolarmente; ma si tratta danneggiamenti continui e ripetuti che condizionano non più un singolo raccolto, ma tutto il pacifico esercizio del diritto di proprietà. Lo Stato, fidando sull’equilibrio biologico, ha introdotto il lupo; ma il lupo, da bravo lupo, si è messo a puntualmente a mangiare le pecore aggiungendo danno su danno. Le Regioni, invece, agiscono in un modo un pochino più concreto erogando contributi per la realizzazione di recinzioni e di altre opere di difesa.
Non si considera mai la possibilità di ridurre i numero con interventi venatori adeguatamente regolamentati; la fauna selvatica, infatti, è intoccabile perché è il veicolo più spettacolare ed emotivo della propaganda per la protezione della natura; è lo stesso motivo per cui si scoraggia il taglio di alberi fosse pure per diradamento.
Il problema dei danni da fauna selvatica si inserisce, dunque, nel quadro molto più vasto di una forma mentis che ha esteso la sua influenza sulla proprietà privata imponendo, a protezione dell’ambiente, del paesaggio e della natura, vincoli troppo generalizzati, ridondanti e onerosi se non confiscatori del reddito. Questi provvedimenti venivano emanati sulla spinta di una assoluta fiducia sugli effetti dell’equilibrio biologico e sulla durata indefinita dell’economia opulenta. Molto è stato facilitato dall’abbandono della montagna e dell’alta collina e dal conseguente disinteresse delle associazioni degli agricoltori e dei sindacati.
Tale è il livello dell’abbandono che l’Inventario Forestale Nazionale del 2005 riporta, per l’Italia, 5 milioni di ettari di bosco in più rispetto alle statistiche precedenti e in gran parte si tratta di boschi di neoformazione su colture ritirate dall’esercizio. Chi confida nell’indefinito benessere e ritiene superflua la produzione, sarà rimasto contento. A produrre restano tuttavia gli eroi della solitudine: retroguardie di agricoltori o di pastori oppure avanguardie di pionieri idealisti. Però chi taglia della vegetazione legnosa per ripristinare un campo rischia perfino l’imputazione di procurato disastro ambientale. Tutto qui.