Possiamo aggiornare ad oggi e dare un ordine di grandezza al problema della plastica e delle microplastiche?
Forse è opportuno ricordare cosa sono le microplastiche e dove si trovano Si tratta di particelle aventi diametro <5 mm, che si formano dalla disgregazione delle plastiche non riciclabili (per azione del sole, del vento e degli altri agenti atmosferici); esse comprendono pure le nanoplastiche (NP), le quali sono particelle ancora più piccole, con dimensioni inferiori a 0.1 μm (100 nm).
Dagli anni Trenta alla prima decade degli anni Duemila, la produzione mondiale di plastica di origine fossile è passata da 1,5 milioni di tonnellate a oltre 280 milioni di tonnellate (con una crescita del 38 per cento negli ultimi 10 anni). La conseguenza è ovvia: più plastica viene utilizzata, più ne viene buttata nei mari (direttamente o indirettamente): almeno otto milioni di tonnellate l’anno, secondo Greenpeace.
Ogni chilometro quadrato di oceano contiene in media 63.320 particelle di microplastica, con differenze significative a livello regionale, secondo l’ultimo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep). Ad esempio, nel Sudest asiatico il livello è 27 volte maggiore rispetto ad altre zone; nel Mediterraneo, uno dei mari più inquinati al mondo, si concentra il 7 per cento delle microplastiche a livello globale.
Perché le microplastiche fanno male alla salute degli umani e del Pianeta?
Una volta in mare, le microplastiche vengono ingerite dalle specie marine ed entrano nella catena alimentare, di cui ovviamente è parte anche l’essere umano: il 15-20 per cento delle risorse ittiche che finiscono sulle nostre tavole contengono microplastiche (secondo dati Ispra).
Per le loro piccole dimensione, le microplastiche, potenzialmente, possono venire assorbite da tutti i tessuti/organi/cellule degli organismi viventi, provocando danni; questi possono derivare da una combinazione di tossicità intrinseca della plastica (esempio, danno fisico), composizione chimica (molecole nocive che possono liberare) e capacità di assorbire, concentrare e rilasciare gli inquinanti ambientali negli organismi viventi; possono anche fungere da vettore per gli agenti patogeni, conducendo alla loro dispersione in nuovi ecosistemi.
Le mascherine sono una fonte di microplastiche?
Una delle conseguenze della pandemia dovuta al virus Sars-CoV-2 è l’aumento smisurato della produzione ed utilizzo delle mascherine protettive. Esse, realizzate con microfibre, quando abbandonate nell’ambiente si rompono e rilasciano microplastiche più facilmente e velocemente dei sacchetti di plastica. Si comprende, quindi, come sia possibile che uno strumento tanto utile, che abbiamo imparato ad apprezzare (e ad odiare), sia fonte di inquinamento; nello stesso tempo, irrompe l’urgenza di mettere a punto una filiera per il recupero ecologico di questi dispositivi.
Le plastiche concorrono ai cambiamenti climatici?
Certamente sì. L’inquinamento da plastica è una delle minacce ambientali più gravi dei nostri tempi, non solo per la crescente quantità che finisce in mare, ma anche per il legame tra la sua fabbricazione e le emissioni di CO2 nell’ambiente. Essa deriva da fonti fossili, principalmente petrolio, e gli impatti ambientali collegati alla sua produzione e smaltimento sono rilevanti. Si comprende, quindi, come rappresenti ancora oggi uno dei maggiori agenti inquinanti del pianeta, anche perché ha trovato un utilizzo in molti prodotti monouso promossi da una cultura “usa e getta”.
Quali sono le alternative alle plastiche?
Il problema richiede una riprogettazione dell’intera filiera dei consumi ed un cambio di mentalità dei consumatori. Innanzitutto, dobbiamo rompere l’abitudine alla plastica. Per esempio, usare una borsa di stoffa per trasportare la propria spesa evita che tanti sacchetti di plastica siano gettati negli oceani e nelle discariche. Per il 2025 tutti gli Stati aderenti all’Unione europea dovranno interrompere definitivamente la vendita di alcuni prodotti plastici monouso.
Un’alternativa alla plastica fossile possono essere i polimeri biodegradabili a base di lignina, cellulosa, pectina: materiali organici che derivano dalle piante. Le fibre naturali possono svolgere un ruolo importante: al posto dei materiali sintetici è possibile utilizzare tessuti di cotone, canapa e lino. I vestiti con questi materiali non solo sono molto comodi e facili da indossare, ma durano anche più a lungo dei materiali sintetici: quando sono completamente consumati, possono essere anche compostati. Il loro impiego consentirebbe di ridurre anche l’impatto del packaging e delle confezioni usa e getta così diffusi a livello globale. I filati più grossi, ottenuti in particolare dalle fibre di canapa, sono utilizzati al posto della plastica per cordami, per le vele delle navi (per esempio, quelle dell’Amerigo Vespucci), per le reti impiegate nella pesca e nella raccolta delle olive e per manufatti idonei a impacchettare cibo, frutta e verdura (confezionamento alimentare ad alta sostenibilità), già in uso nella grande distribuzione in Francia e Germania.
Possono, le fibre naturali (canapa e lino, principalmente), rappresentare un’alternativa alle plastiche e microplastiche di origine fossile?
Le piante di canapa e lino contengono circa il 65-70% di cellulosa e rappresentano una fonte particolarmente promettente per la fabbricazione di bioplastiche; dalla cellulosa attraverso un processo di polimerizzazione si può ottenere una grande varietà di plastiche biodegradabili, come per esempio celluloide, cellofan e rayon, tutti materiali leggeri che si prestano alla sostituzione di molte delle plastiche petrolchimiche che utilizziamo nel quotidiano. Anche se in molti casi non possono competere con le sofisticate materie plastiche di oggi, possono essere utilizzati come isolanti e per l’imballaggio, in sostituzione del polistirolo e di altri materiali derivati dal petrolio.
La bioplastica di canapa ha il vantaggio di essere atossica ed è quindi eccellente per l’uso a contatto con la pelle e per la conservazione degli alimenti. A differenza della plastica a base di petrolio, non contiene composti nocivi quali idrocarburi policiclici aromatici (IPA), acido polilattico (PLA), polisuccinato di butilene (PBS) e poliidrossialcanoati (PHA), interferenti del sistema endocrino e associati a problemi di salute (infertilità, malattie cardiache, diabete, obesità). I settori nei quali vengono già utilizzate le fibre di canapa e lino sono l’industria automobilistica, dell’elettronica, dell’arredamento e dei giocattoli; ma, soprattutto, come materiale per le stampanti 3D, tramite le quali vengono creati oggetti, utensili, confezioni e gadget di ogni tipo.
Canapa e lino quindi sono un'opzione credibile?
A questo riguardo, vale forse la pena concentrare l’interesse soprattutto sulla canapa, per due ragioni: 1) produce una quantità di biomassa per ettaro (e, quindi, di cellulosa) di gran lunga superiore a quella del lino; 2) la filiera del lino per usi tessili di qualità è ampiamente collaudata e praticata in altri paesi europei a noi vicini (Belgio, Olanda, ecc.); quindi, potrebbe essere facilmente trasferita nel nostro Paese, qualora ricorrano le condizioni per uno sviluppo della coltura. L’uso più nobile del lino è quello del tessile per la produzione di tessuti fini per l’arredamento e l’abbigliamento di eccellenza venduti anche alle griffe di lusso.
La canapa, dal canto suo, possiede molteplici prerogative agronomiche vantaggiose. Ha bisogno di poca acqua, grazie a un apparato radicale molto espanso che esplora un ampio volume di terreno; non necessita di una robusta concimazione, poiché si va a cercare il nutrimento da sola; soprattutto, è una pianta rustica che tollera bene i patogeni e non richiede impegnativi presidi chimici di difesa. Infine, il veloce ritmo di crescita "soffoca" le infestanti e ne impedisce lo sviluppo. Per tale azione rinettante e per gli abbondanti residui organici che lascia nel suolo, la canapa rappresenta un’ottima alternativa colturale e si adatta bene ai modelli di agricoltura biologica e conservativa.
Ci sono criticità da superare nella filiera di produzione?
La coltivazione di canapa ha grandi tradizioni nel nostro Paese, risale ai primi decenni del secolo scorso (eravamo tra i maggiori produttori) e la filiera di produzione, nelle sue varie fasi (semina, gestione della coltura, raccolta, macerazione degli steli, separazione della fibra dal canapulo, lavorazione della fibra), poggiava sul lavoro manuale e richiedeva molta manodopera, allora disponibile e fornita da famiglie numerose che trovavano nel settore agricolo le maggiori opportunità di occupazione. I cambiamenti sociali e demografici, intervenuti già a partire dalla metà del secolo scorso, e, soprattutto, la competizione del cotone e l’avvento delle fibre sintetiche ricavate da fonti fossili (plastica), hanno messo in crisi le colture tessili tradizionali, provocandone una significativa riduzione delle superfici coltivate, fino alla scomparsa.
Varie motivazioni hanno incentivato il ritorno alla coltivazione di questa tradizionale pianta da fibra, le più importanti sono di tipo agronomico (colture alternative da inserire nelle rotazioni colturali per rigenerale la sostanza organica dei terreni e migliorarne la sostenibilità), di tipo ambientale (per la versatilità di impiego dei vari prodotti derivati e l’adattabilità ad una economia circolare), di tipo qualitativo (per la qualità tecnologica delle fibre: essendo cave, assorbono l’umidità, sono traspiranti e isolanti, in grado di restare fresche d’estate e calde d’inverno).
Da qualche decennio si è assistito ad un rifiorire di studi, ricerche e sperimentazioni sulla canapa focalizzate sulle maggiori criticità della filiera produttiva: i) la meccanizzazione integrale della coltura; ii) le tecniche di coltivazione calibrate sul tipo di destinazione del prodotto, volte non solo a ottimizzare le performance in campo ma anche a rispondere alle esigenze dei vari impieghi; iii) l’insediamento sul territorio di centri di trasformazione della materia prima raccolta in campo; iv) lo sviluppo di nuove varietà dioiche e monoiche adatte ai vari usi; v) una legislazione che tuteli i produttori e gli utilizzatori/consumatori.
Quali suggerimenti per il futuro?
Devono continuare la ricerca e la sperimentazione, supportate prima di tutto da robusti finanziamenti da parte dell'Ente pubblico; devono però sentirsi coinvolte anche le imprese private per implementare lo sforzo dei ricercatori e trasferire al mondo operativo le innovazioni man mano raggiunte. Le precedenti esperienze insegnano che validi know how sono stati raggiunti nella macerazione controllata della canapa e nello sviluppo di prototipi di macchine per la raccolta, però non c'è stata alcuna applicazione e ricaduta e terra delle innovazioni sviluppate. Infatti, i risultati delle attività di ricerca condotte in Italia e all’estero (sotto il profilo genetico, agronomico, farmacologico, dell’ecosostenibilità e del riciclo dei sottoprodotti della lavorazione) sono stati presentati in convegni e pubblicati in articoli scientifici, saggi e manuali. Attendono, però, una divulgazione più capillare e decisioni politiche lungimiranti per promuovere il rilancio di questa coltura.