Il degrado e la cementificazione dei suoli fertili limitano la capacità produttiva dell’agricoltura, hanno effetti negativi sull’assorbimento idrico e sulla biodiversità.
La Commissione Europea considera questi processi una delle principali sfide: le politiche europee dovranno tenere conto delle loro conseguenze sull’uso dei terreni, con il traguardo di un incremento dell’occupazione netta di terreno pari a zero entro il 2050.
Molte legislazioni europee hanno adottato il principio che il consumo di suolo è consentito esclusivamente nei casi in cui non esistono alternative al riuso e alla rigenerazione delle aree già urbanizzate. In Italia, il Governo ha approvato, a fine 2013, un disegno di legge che prevede un limite quantitativo vincolante al consumo di suolo.
Il nostro è un paese poco attento nell’utilizzo di una risorsa scarsa e non rinnovabile qual è il territorio: le aree con copertura artificiale in Italia sono pari a 23.553 km2, il 7,8 per cento del territorio nazionale, contro una media comunitaria del 4,6 per cento.
Uno dei fenomeni più controversi è la dispersione insediativa che si è diffusa come modello urbanistico.
Nel corso degli ultimi decenni, il consumo di suolo si è dilatato sui comuni limitrofi alle città di maggiori dimensioni demografiche. Si evidenzia la progressiva perdita di popolazione delle grandi città a vantaggio dei comuni della prima e seconda cintura. È possibile immaginare che la creazione delle città metropolitane possa ulteriormente favorire questo processo.
Le elaborazioni dell’Istat sull’uso del suolo, relative al periodo 2004-2009, permettono di stimare quanto la riduzione della superficie agricola utilizzata è conseguente ai fenomeni di urbanizzazione. Le “aree agricole” diminuiscono del 2,4 per cento, mentre le “aree artificiali” crescono dello 0,7 per cento. Ciò vuol dire che le aree agricole hanno pagato un pesante prezzo all’urbanizzazione: una superficie stimata intorno all’1,1 per cento del territorio.
Le stesse elaborazioni ci dicono che la diminuzione dei terreni agricoli è maggiormente dovuta alla loro trasformazione in “bosco e aree naturali”, una transizione che ha interessato il 3,6 per cento del territorio.
L’erosione delle aree agricole avviene verso due direttrici: la prima è l’urbanizzazione a bassa intensità, la seconda, verso l’incolto che comprende le aree agricole interessate ai fenomeni dell’abbandono e rinaturalizzazione.
Nel primo caso siamo di fronte a trasformazioni irreversibili, nel secondo caso, invece, è possibile, e secondo me necessario, il recupero della destinazione produttiva.
Non possiamo più permettere che continui, senza freni, l’occupazione di terreno per l’urbanizzazione e la costruzione d’infrastrutture.
Ma con altrettanto impegno dobbiamo porci l’obiettivo di recuperare le capacità produttive dei terreni e delle aziende marginali: si tratta poco meno di un milione di ettari di SAU che fanno capo a circa 600mila aziende prevalentemente condotte da anziani senza successore attivo, con ridotte cure colturali e scarsi o nulli collegamenti con il mercato, con una predominante componente di reddito extra agricolo o proveniente da contributi pubblici (PAC e pensioni). Non mi convince la tesi che queste aziende e questi terreni, in transizione verso l’incolto e l’abbandono, debbano essere valorizzati solo in nome di un presunto beneficio ambientale. Probabilmente queste aziende rispondono ai criteri della «sostenibilità ambientale». Certamente non rispondono ai principi della «razionalità economica e sociale».
Dobbiamo fare in modo che questi terreni siano recuperati a una funzione produttiva, anche destinando in modo selettivo le risorse della PAC. Penso alla figura dell’«imprenditore attivo» che il Ministero dovrà, a breve, definire.