In occasione dei 700 anni dalla morte di Dante Alighieri è ovviamente un profluvio di iniziative per ricordare questa straordinaria figura che merita di “esser letto, ammirato e meditato anche dai Botanici … quale uomo omniscio (che tutto sa - n.d.r) dei suoi tempi e qual maestro di color che sanno”. Sono le parole con le quali Ottaviano Targioni Tozzetti – Firenze: 1755-1829, botanico di fama, medico, accademico dei Georgofili e della Crusca, in tre parole personaggio di rilievo del panorama culturale nazionale del suo tempo – concluse la lezione “Delle cognizioni botaniche di Dante espresse nella Divina Commedia” tenuta all’Accademia della Crusca il 9 maggio 1820. Il testo a stampa di questa vera e propria lectio magistralis è stata resa disponibile in rete dall’Accademia dei Georgofili che ha meritoriamente dedicato all’Alighieri la mostra online “Lo sguardo di Dante: agricoltura e botanica nell’universo dantesco” mettendo a disposizione di studiosi ed anche di curiosi (ego quorum) la versione digitale di alcuni volumi conservati nella sua Biblioteca Storica. Da parte nostra (apparteniamo alla categoria dei curiosi) rifacendoci all’esposizione appassionata e dotta del Targioni ci limiteremo a mettere in evidenza alcuni aspetti inusuali o ancora attuali lasciando che “a cantare” siano soprattutto le terzine del Poeta e a darne spiegazione, soprattutto nell’accezione umanistica e non scientifica, le parole dello stesso Targioni Tozzetti.
Francescano per spiritualità e misticismo, inventore del “volgare illustre”, Dante, definito fra l’altro con grande ammirazione “misuratore di mondi”, ha descritto le sue meditate considerazioni sul mondo naturale nel libro “Questio de acqua et terra”, tutt’altro che opera minore come riportano i libri scolastici. A questo punto una piccola premessa ad uso e consumo dei nostri lettori: “La natura viva, piante e fiori e frutti è certamente quella sulla quale il Nostro si sofferma di più in tutte e tre le Cantiche”. E, continua l’esperto dei nostri giorni, “in particolare piante e fiori sono osservati in relazione al loro habitat”. Non si tratta di certo di un particolare da poco e bisogna tener conto che bisogna tornare indietro di ben settecento anni.
Tanto per stare in tema il nostro Virgilio, il Targioni, è “specialmente” attratto e affascinato sin dall’inizio da quell’insieme di sensazioni e di osservazioni che afferiscono alla “parte filosofica e fisiologica” delle piante: concetto non semplice che ci sembra si possa sintetizzare nell’afflato divino che si visualizza precipuamente e specificamente nella luce e con l’espressione più potente nel calore del sole, un afflato che interseca e permea il creato in tutte le sue manifestazioni vitali. <Saper dei, che la Campagna santa – afferma Matelda nel Paradiso terrestre -/Ove tu se’ d’ogni semenza è piena,/ E frutto ha in se, che di là non si schianta> (P. 28). <E vero frutto verrà dopo il fiore>. E ancora, versi famosi: <Guarda il calor del sol che si fa vino,/Giunto all’umor che dalla vite cola> (Pu. 25) “mostrando così che il calor del sole, sempre congiunto alla luce, produce questa maturazione del sugo acido dell’agresto in quello dolce dell’uva matura, a far vino”. Ma il divino Poeta conosceva anche l’azione che la luce del sole “esercita sopra i fiori, per cagion della quale aprono essi i petali e discuoprono all’apparir dell’astro benefico gli stami e i pistilli, per celebrare le loro nozze”. E allora, fulminante: <Quale i fioretti dal notturno gelo/Chinati e chiusi, poiché ‘l sol gl’imbianca,/Si drizzan tutti aperti in loro stelo,/Tal mi fec’io> (I. 2). Ma il nostro “Poeta filosofo” ebbe conoscenza anche “di come alla fecondazione del frutto bisogna cooperasse l’aer sereno, e l’aura lieve dei venti, che ne scuotesse il pulviscolo fecondante … e come contraria a tale operazione fosse l’aria umida, la nebbia e la pioggia, in modo tale da fare abortire e distruggere il desiderato frutto”. Ergo: <Ben fiorisce negli uomini il volere,/Ma la pioggia continua converte/In bozzacchioni le sasine vere> (Pu. 27). Per saperne di più ci soccorre il dizionario Treccani che specifica che il termine “bozzacchione” indica “una susina ipertrofica, gonfia e vuota, più o meno deformata in seguito all’attacco di un fungo ascomicete che precocemente si secca e poi cade”. Nel passato, anche e soprattutto sulla scia del verso dantesco, è stato usato nel senso più generico di cosa non riuscita e/o di opera fallita. Ancora oggi, in frutticoltura, con l’espressione “bozzacchione del susino” si è soliti indicare l’infezione fungina da Taphrina pruni.
Ma non è tutto. Sempre dal Targioni: “Nè minor cognizione delle funzioni della vegetazione dimostra di aver avuta il nostro Poeta quando ripone la vita delle piante nel color verde delle foglie”: <Come per verdi foglie in pianta vita> (Pu. 18). “Ora è dimostrato che il verde delle foglie del medesimo aereo acido carbonico assorbito dalle piante …la quale scomposizione, come la maturazione dei frutti, si deve alla luce del sole perché facendo essa esalare nell’atmosfera delle piante l’ossigene, o aria vitale e respirabile dell’acido carbonico, rende salubre l’aria che respiriamo”. Non so quanto sia scientificamente corretta, alla luce delle odierne conoscenze scientifiche, questa descrizione della fotosintesi clorofilliana ma sono parole che trasudano poesia ammirazione e stupore per la complessità e la bellezza della natura e dei suoi comportamenti. Di qui la constatazione che “se si privano le piante della luce, o con portarle nell’oscurità, o con sotterrarle e cuoprirle (coprirle-ndr) con corpi opachi, perdono il colore verde, come la pratica ha insegnato agli ortolani per le piante dei sedani, dei finocchi e dei carciofi che volgarmente gobbi si addomandano (chiamati- ndr), per il radicchio, tenendolo nelle cantine, per le insalate, delle quali legano i cesti per averle bianche nelle foglie interne. E questa teoria non vi sembra ottimamente esposta nel canto undecimo del Purgatorio?”: <La vostra rinomanza (fama, notorietà- ndr) è color d’erba,/che viene e va, e quei la discolora/Per cui ell’esce della terra acerba> (Pu. 11). “Sapeva egli adunque – si chiede con non celata ammirazione il nostro Virgilio/Targioni Tozzetti – che le piante vicino a terra e sotto di essa non sono verdi, al che allude, quell’ ‘esce della terra acerba’ cioè che non ha ancora provata l’azione della luce del sole” … “Di tal gentile colore (di un colore ‘verde più gaio e men cupo’) volle vestire gli Angeli discesi nella Valle del Purgatorio a guardia del serpente: <Verdi come fogliette pur mo nate/Erano in veste…>. (Pu. 8).
Dante “conoscendo con qual forza il succhio (la linfa-ndr) sale dalle radici all’estremità degli alberi, fa che soffi e spumi il rotto tronco dello sterpo nella selva dei violenti, portando la similitudine di un legno verde, e non stagionato messo sul fuoco, dal calore del quale rarefatti e spinti l’umido e l’aria contenuti nei vasi del legno e della corteccia, escono in forma di spuma, e con simbolo delle recise estremità dei predetti vasi o tubi”: <Come d’un stizzo verde, ch’ arso sia/Dall’un de’ capi, che dall’altro geme,/E cigola per vento che va via;/Così di quella scheggia usciva insieme/Parole e sangue, ond'i lasciai la cima/Cadere, e stetti, come l’uom che teme> . (I.13). E ancora, se “si voglia ricercare, se Dante avesse cognizione della natura delle piante, e del loro diverso modo di crescere, lo possiamo ben rilevare – sempre con il Targioni – dall’ordine che Virgilio ebbe da Catone uticense, di cingere a Dante la testa con un Giunco Schietto cioè senza nodi e foglie, quale è lo Scirpas romanus, e l’holoscoenus, che Giunco propriamente si addomanda … il quale vive negli acquitrini e d’intorno alle fosse”: <Va dunque e fa che tu costui ricinga/D’un giunco schietto> (Pu.1) “il quale anche di nostri campagnoli adoprasi per legare, e ad altri usi rusticali”. <Quivi mi cinse – ricorda e sottolinea Dante – sì come altrui piacque/Oh maraviglia! Che qual egli scelse/L’umile pianta, cotal si rinacque/Subitamente là, onde la svelse>. (Pu.1)
Ma non è ancora finita in quanto “il divino cantore” volle mostrarsi ancor perito nella coltivazione facendo vedere che le piante abbandonate a se stesse ed inselvatichite, crescono storte e senza frutto; e tali le pose nell’orrida selva dei violenti”: <Non frondi verdi, ma di color fosco,/Non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti,/Non pomi v’eran,/ma stecchi con tosco,/Non han si aspri sterpi, né si folti/ Quelle fiere selvagge, ch ‘n odio hanno/Fra Cecina e Corneto i luoghi còlti> (I.13) Le fiere selvagge che “in odio hanno i luoghi colti” altro non sono che i cinghiali, allora nobili padroni della Maremma oggi ridotti dalle mani avide dell’uomo a poco meno di specie aliene su gran parte del territorio italiano dove procurano danni notevolissimi sia agli ambienti naturali che ai “luoghi colti”.
La considerazione conclusiva che segnaliamo della dotta dissertazione del georgofilo Targioni Tozzetti testimonia che il divin cantore volle “mostrarsi ancor perito nella coltivazione” facendo vedere che le piante abbandonate a se stesse e quando è negletta la coltivazione del terreno, crescono storte e senza frutti; e tali li pose nell’orrida selva dei violenti” come si evince dai seguenti versi: <Ma tanto più maligno, e più silvestro/Si fa ‘l terren col mal seme, e non colto,/Quant’elli ha più di buon vigor terrestro> (Pu. 30).
Documenti consultati nella mostra dell’Accademia dei Georgofili "Lo sguardo di Dante: agricoltura e botanica nell'universo dantesco, (a cura di D. Vergari, D. Fiorino)" https://www.georgofili.it/contenuti/dettaglio/8254.
Consultazione del 28/9/2021
Foto di Patrizia Messeri