Mi viene chiesto un commento sul contenuto dell’articolo di Alessandro Sala, comparso pochi giorni fa sul Corriere della Sera: “L’appello dei veterinari a Draghi: no al divieto di usare antibiotici, a rischio animali e persone. Lettera al premier, al ministro Speranza e al presidente dell’Europarlamento Sassoli: Non scientifico lo stop alle cure antimicrobiche in veterinaria, così si mette in pericolo anche la sicurezza alimentare” .
Facciamo un po’ di storia, anche per capire di cosa stiamo parlando.
A partire dagli anni ’50 del secolo scorso si scoprì che l’aggiunta di antibiotici in basse dosi (10-20 ppm) nella razione alimentare degli animali in allevamento ne favoriva le prestazioni produttive, limitando anche l’insorgenza di patologie. Ben presto, però, ci si rese conto di due conseguenze negative fra loro collegate: con il tempo l’efficacia degli antibiotici come promotori di crescita diminuiva e, in aggiunta a ciò, molti batteri patogeni, potenzialmente pericolosi anche per l’uomo, divenivano resistenti. Si convenne allora che fosse opportuno, se non bandire completamente l’uso degli antibiotici in alimentazione animale, per lo meno differenziare quelli da impiegare come promotori di crescita da quelli da impiegare come presidi antibatterici.
Gli antibiotici ammessi in zootecnia erano un numero limitato, fra cui il Monensin, la Virginiamicina, la Zincobacitracina e l’Avilamicina. Ciò fino al 2006, quando con la nuova “Feed additives Regulation” (Reg. 1831/2003/EC9), che aveva sostituito la direttiva europea “On additives in feeding stuffs” (70/524/EEC), anche gli antibiotici ammessi come auxinici sono stati messi al bando.
L’articolo di Alessandro Sala ci presenta di nuovo il problema attraverso la preoccupazione dei veterinari relativa al divieto “della discordia”, contenuto nel regolamento europeo sui medicinali veterinari (2019/6) e adottato due anni fa, su cui gli Stati membri si devono esprimere per poi passare la parola definitiva all’assemblea di Strasburgo. Scrive Alessandro Sala: “Il divieto di utilizzo di alcuni antibiotici per la cura degli animali, sia quelli destinati alla produzione alimentare sia quelli da compagnia, potrebbe rivelarsi un boomerang: non aiuterebbe a contrastare in maniera efficace l’antibioticoresistenza e, nell’immediato, metterebbe a rischio la salute non solo degli animali ma anche quella degli esseri umani. Lo sostiene la Federazione nazionale degli ordini veterinari italiani (FNOVI) che lancia un appello al premier Mario Draghi, al ministro della Salute Roberto Speranza e al presidente dell’Europarlamento David Sassoli affinché prendano posizione contro la risoluzione che andrà al voto nelle prossime settimane al Parlamento Europeo”.
Per capire come stanno veramente le cose, mi sono andato a leggere le 125 pagine del regolamento (UE) 2019/6 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2018, relativo ai medicinali veterinari e che abroga la direttiva 2001/82/CE.
L’articolo 8 recita: “L’impatto delle malattie degli animali e delle misure necessarie per controllarle può essere devastante per i singoli animali, le popolazioni animali, gli allevatori di animali e l’economia. Le malattie animali trasmissibili all’uomo possono incidere in modo considerevole anche sulla salute pubblica. Per questo motivo dovrebbero essere disponibili nell’Unione medicinali veterinari sufficienti ed efficaci, al fine di garantire standard elevati per la salute pubblica e la sanità animale e assicurare lo sviluppo dei settori dell’agricoltura e dell’acquacoltura”.
L’articolo 25 recita: “Nel caso di animali destinati alla produzione di alimenti, i veterinari dovrebbero provvedere a prescrivere un tempo di attesa adeguato, affinché i residui nocivi di tali medicinali non entrino nella catena alimentare, nonché prestare particolare attenzione all’atto di somministrare antimicrobici”.
All’articolo 39 si legge: “La resistenza antimicrobica ai medicinali per uso umano e veterinario è un problema sanitario crescente nell’Unione e in tutto il mondo. L’impatto del problema, a causa della sua complessità, della sua dimensione transfrontaliera e dell’elevato onere economico che comporta, si estende al di là delle sue gravi conseguenze per la salute pubblica e la sanità animale fino a diventare un problema di salute pubblica su scala mondiale, che interessa la società nel suo complesso e richiede un’azione intersettoriale urgente e coordinata in conformità dell’approccio «One Health». Tale azione comprende il rafforzamento dell’uso prudente degli antimicrobici, evitando il loro uso metafilattico e profilattico di routine, le azioni volte a limitare l’uso negli animali di antimicrobici che sono di importanza fondamentale per prevenire o trattare infezioni potenzialmente letali negli esseri umani nonché gli incoraggiamenti e gli incentivi allo sviluppo di nuovi antimicrobici. È necessario inoltre assicurare che nelle etichette degli antimicrobici veterinari siano comprese avvertenze e indicazioni appropriate. L’impiego non previsto nei termini dell’autorizzazione all’immissione in commercio di alcuni antimicrobici nuovi o estremamente importanti per l’uomo dovrebbe essere limitato nel settore veterinario. Le norme relative alla pubblicità degli antimicrobici veterinari dovrebbero essere rese più rigorose e i requisiti per l’autorizzazione dovrebbero tenere conto sufficientemente dei benefici e dei rischi dei medicinali veterinari antimicrobici”.
Ancora, all’articolo 46: “Per preservare il più a lungo possibile l’efficacia di determinati antimicrobici per il trattamento di infezioni nell’uomo, può essere necessario riservare tali antimicrobici unicamente all’uomo. Dovrebbe pertanto essere possibile decidere che alcuni antimicrobici, in seguito alle raccomandazioni scientifiche dell’Agenzia, non dovranno (L 4/48 Gazzetta ufficiale dell’Unione europea 7.1.2019 IT) essere disponibili sul mercato nel settore veterinario. In sede di tale decisione sugli antimicrobici, la Commissione dovrebbe tenere conto anche delle raccomandazioni disponibili al riguardo elaborate dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) e da altre agenzie pertinenti dell’Unione, che tengono conto, a loro volta, di eventuali raccomandazioni pertinenti delle organizzazioni internazionali, quali l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), l’Organizzazione mondiale per la salute animale (OIE) e il Codex Alimentarius”.
Tutto sommato, il testo del regolamento 2019/6 a me sembra abbastanza equilibrato, tenendo conto di quanto si legge nel testo. Ma, dall’articolo del Corriere della Sera, sembra di capire che i veterinari italiani temano che “il divieto di utilizzo di alcuni antibiotici per la cura degli animali, sia quelli destinati alla produzione alimentare sia quelli da compagnia, potrebbe rivelarsi un boomerang: non aiuterebbe a contrastare in maniera efficace l’antibioticoresistenza e, nell’immediato, metterebbe a rischio la salute non solo degli animali ma anche quella degli esseri umani”.
Comunque sia, è importante che i nostri rappresentanti politici a livello europeo abbiano chiari alcuni concetti di base:
a) gli antibiotici devono essere usati con estrema cautela per limitare al massimo la antibioticoresistenza batterica;
b) gli antibiotici per uso veterinario devono essere diversi e distinti da quelli per uso umano;
c) in ogni caso se ne eviti un uso irresponsabile ed ingiustificato.
d) gli antibiotici devono essere impiegati come presidi terapeutici e non come promotori di crescita. A questo proposito vale la pena di ricordare che esistono alcuni prebiotici, non antibiotici, che funzionano egregiamente come antimicrobici ad azione auxinica, esaurientemente sperimentati anche in campo. Fra questi l’acido butirrico, particolarmente efficace se somministrato sotto la forma di monogligeride.
In ogni caso, il divieto assoluto di bandire gli antibiotici in veterinaria è improponibile.