Non c’è niente da fare: il consumo di suolo non si arresta

di Marcello Pagliai
  • 28 July 2021

Non bastano le catastrofi ambientali sempre più frequenti, come quelle dei giorni scorsi in Germania, nel Nord Europa ma anche in Cina, con un altissimo costo di vite umane, dovute a eventi climatici estremi che si abbattono su un territorio in precedenza devastato, da un lato, da una cementificazione, e quindi impermeabilizzazione, selvaggia e dall’altro, nelle aree marginali di alta collina e montagna, da abbandono e quindi da totale mancanza di gestione, manutenzione e messa in sicurezza del territorio. Nonostante questo il consumo di suolo non si arresta malgrado i proclami, a vuoto, invocanti un’inversione di tendenza.
Lo scorso anno definimmo i dati del 2019 allarmanti perché le nuove coperture artificiali avevano riguardato altri 57 km2 (57 milioni di metri quadrati) al ritmo, confermato, di oltre 2 mq al secondo; il rapporto ISPRA del 2021 sottolinea che “a livello nazionale le colate di cemento non rallentano neanche nel 2020, nonostante i mesi di blocco di gran parte delle attività durante il lockdown, e ricoprono quasi 60 chilometri quadrati, impermeabilizzando ormai il 7,11% del territorio nazionale. Ogni italiano ha a disposizione circa 360 mq di cemento (erano 160 negli anni ’50)”.
Il rapporto pone all’attenzione anche dati economici non confutabili: senza interventi “è un costo complessivo compreso tra gli 81 e i 99 miliardi di euro, in pratica la metà del Piano nazionale di ripresa e resilienza, quello che l’Italia potrebbe essere costretta a sostenere a causa della perdita dei servizi ecosistemici dovuta al consumo di suolo tra il 2012 e il 2030. Se la velocità di copertura artificiale rimanesse quella di 2 mq al secondo registrata nel 2020 i danni costerebbero cari e non solo in termini economici. Dal 2012 ad oggi il suolo non ha potuto garantire la fornitura di 4 milioni e 155 mila quintali di prodotti agricoli, l’infiltrazione di oltre 360 milioni di metri cubi di acqua piovana (che ora scorrono in superficie aumentando la pericolosità idraulica dei nostri territori) e lo stoccaggio di quasi tre milioni di tonnellate di carbonio, l’equivalente di oltre un milione di macchine in più circolanti nello stesso periodo per un totale di più di 90 miliardi di km. In altre parole due milioni di volte il giro della terra”.
Si evidenzia anche la correlazione fra consumo di suolo nelle città e nelle aree produttive e isole di calore. Infatti, le nostre città sono sempre più calde e inospitali nei periodi estivi.
Oltre a tutto questo, il rapporto in questione lancia un altro allarme davvero inconcepibile e cioè che con la transizione ecologica molti impianti fotovoltaici vengono istallati, specialmente in molte regioni, a terra anziché sui tetti di edifici esistenti. Si fanno anche previsioni impressionanti, come già riportato anche da Georgofili.info del 21 luglio u.s., sull’ulteriore consumo di suolo (https://www.georgofili.info/contenuti/consumo-di-suolo-e-fotovoltaico-i-conti-non-tornano/15744).
Evidentemente non bastano le catastrofi e i dati sopra riportati a indurre un cambiamento di rotta, cioè ad adeguate scelte politiche, perché le modalità di gestione del territorio sono questioni politiche e non scientifiche; la scienza e, in questo caso, la scienza del suolo già da tempo aveva assolto il suo compito prevedendo e fornendo dati su cosa sarebbe successo con l’adozione di questo modello di sviluppo; una scienza non solo bistrattata ma bellamente ignorata.
Si sottolinea ancora che l’incremento di tale consumo è un grave danno anche per l’agricoltura proprio perché, come è noto, l’espansione urbanistica e l’agricoltura competono per gli stessi suoli che, guarda caso, sono sempre i migliori per capacità produttiva, fertilità, giacitura, ecc. Mentre da un lato il mondo agricolo si è aperto alla salvaguardia dell’ambiente e alle innovazioni, basta vedere nelle nostre campagne il ripristino di rotazioni, l’abbandono di irrigazioni a getto in favore dell’irrigazione a goccia per ridurre il consumo di acqua vista la sua progressiva e preoccupante limitazione, gli impianti di nuove colture arboree (soprattutto nuovi oliveti) secondo i nuovi criteri di “intesificazione sostenibile”, ecc., dall’altro non cambia niente. C’è un mondo che non solo ignora il suolo ma si rifiuta di conoscerlo, di capire le sue funzioni ecosistemiche e attribuisce le catastrofi di cui sopra o al fato o agli eventi estremi (definendoli eccezionali, mentre ormai non lo sono più) dovuti ai cambiamenti climatici. Magari è lo stesso mondo che si riempie la bocca di parole sulla necessità di garantire un futuro dignitoso alle nuove generazioni. Ma quale futuro?