Il timore che il “Recovery Fund”, cioè il PNNR, preparato dall’Italia per accedere agli aiuti della transizione ecologica, possa dimenticarsi della situazione agricola italiana, esponendola alle negative (per qualcuno disastrose) conseguenze del reperimento di più energie rinnovabili, solari ed eoliche, è già stato ampiamente espresso in sede accademica e nel dibattito pubblico.
A questo si sono aggiunti i dubbi conseguenti alle misure che l’UE, con la strategia “Farm to Fork”, metterà in atto nel prossimo decennio per favorire la crescita del biologico, tanto che il dibattito su questo tema è stato ingenuamente “deragliato” sulla legittimazione del biodinamico. Non era questo, infatti, il problema principale, ma quello commerciale, finalizzato da parte dei coltivatori biodinamici a “prenotare” sussidi che avrebbero consentito di lucrare risorse attraverso l’imposizione sui mercati di marchi differenziati di prodotti “biodinamici”, pur essendo soltanto “biologici”.
Anche su questo problema abbiamo portato un contributo di chiarezza e comprensione, che ora intendiamo proseguire con la presente nota.
Sempre a partire dal filone di riflessioni sviluppate dall’Accademia dei Georgofili, lo scenario agricolo europeo, come noto, si aprirà agli aiuti previsti dalle strategie PAC del “Farm to Fork”, ma con una distinzione fra prodotti agroalimentari ben qualificati quali sono le eccellenze del made in Italy (vedi ortofrutta e vini), e prodotti alimentari di prima necessità, le cosiddette commodities (comprensive di cereali, leguminose proteiche (soia), bietole da zucchero, latte e derivati, ecc.) e come tali territorialmente indifferenziate, soggette al commercio internazionale globalizzato e a particolari gestioni finanziarie dei mercati come a contratti ad hoc (es. i future).
L’Italia ha tutto l’interesse a tutelare il primo dei due obiettivi (anche per difendere l’export), ma, col secondo, deve nondimeno garantire gli approvvigionamenti alimentari alla popolazione che, per oltre il 50%, si avvale già di prodotti importati da tutto il mondo.
Nelle attuali circostanze, la gestione della filiera alimentare italiana, non è controllata, se non in modesta parte, dalle APO e dai Consorzi di produttori, ma dai cosiddetti “potentati” delle GDO, fra le quali, con peso limitato, le varie Coop, Conad, Esselunga, in mano agli agricoltori.
Occorre anche precisare che la strategia europea a favore del biologico potrebbe rivelarsi inadeguata nei prossimi anni, perché un’eccessiva espansione delle colture biologiche, se non adeguatamene sostenute da aumento della domanda, potrebbe far diminuire i prezzi, fino a livello dei prodotti convenzionali, e perciò rientrare indirettamente fra le commodities che, per prassi, si combattono sulla competitività dei prezzi al ribasso, fino al limite del sottocosto.
La nuova PAC 2021-2027 prevede misure di incentivazione alla transizione ecologica e digitale, a favore dell’agricoltura biologica, del carbon farming, dell’agroforestazione, dell’agricoltura digitale di precisione, dell’ottimizzazione dell’irrigazione. L’agricoltura biologica dovrà di certo cambiare ed è possibile che ciò si rifletta pesantemente sulle commodities.
E allora gli ortofrutticoli? Certo, se si guarda alla realtà occorre un esame di coscienza. Le nostre imprese investono troppo poco nella promozione e nell’immagine, cosicché le vendite a basso prezzo potrebbero assimilare i prodotti ortofrutticoli italiani a delle commodities, le cui fortune dipendono dal costo del lavoro di filiera e degli imballaggi e comunque da tutta la logistica distributiva. I prodotti ortofrutticoli, per evitare questi ostacoli, dovrebbero poter contare su un marketing moderno, accompagnato da una narrazione del valore salutistico del prodotto. Dovrebbero essere attivate anche le organizzazioni interprofessionali (le OI), ora quasi silenti per la frutta, previste e incoraggiate dall’UE (e già assai attive in Francia) e invece osteggiate in Italia dalle principali organizzazioni dei produttori, che le vedono ingiustamente come loro competitor nella spartizione degli aiuti. La OI del pomodoro, per esempio, attivata da anni, sta funzionando bene.
Per l’ortofrutta occorre difendere la qualità, e mantenerla a livello superiore, per potersi imporre in Europa agganciando i prezzi dei prodotti Premium. La politica dei prezzi non può e non deve essere quella del ribasso generale vissuta negli ultimi anni. Relegare i prodotti italiani ai più bassi livelli della competizione significa sacrificare in primo luogo la qualità, i marchi e le certificazioni, che diventano così carta straccia.
Gli ortaggi sono meno colpiti da questo fenomeno, la loro domanda, con il lockdown, è divenuta più sostenuta e in generale si avvantaggiano in parte della quota di prodotti di IV e V gamma, ormai venduti anch’essi a prezzi competitivi.
Il caso dei vini è diverso perché il marketing, sostenuto dalla stessa UE, ha consentito di mantenere l’alta qualità e di brillare sui mercati esteri, sia pure a prezzi inferiori a quelli delle più blasonate case vinicole estere.
Per finire, vorrei citare due esperti, L. Frassoldati e C. Scalise: affermano che, per sostenere le nostre produzioni elitarie, occorrerebbe coinvolgere anche la gastronomia, la cucina, la ristorazione, per avvicinare una fascia più larga di consumatori, per lo più a digiuno di conoscenze frutticole. La frutta, infatti, deve farsi apprezzare per la qualità. Altrimenti l’ortofrutta resterà una “commodity nell’immagine collettiva”.