Da un po’ di tempo a questa parte si fa sempre più attenzione, giustamente, al benessere degli animali in allevamento. Sembra un paradosso raccomandare agli allevatori di curare le condizioni igienico-sanitarie, di nutrizione e alimentazione, dei ricoveri, dei trasporti, perché è nell’interesse degli stessi allevatori lavorare bene: gli animali maltrattati producono meno e qualitativamente peggio e necessitano di maggiori cure mediche. Alle fine dei conti costano di più, oltre a dare un’immagine negativa dell’allevamento.
Gli animali, noi compresi, sono continuamente bersagliati da agenti patogeni di natura batterica, virale, protozoica. Il sistema naturale di difesa è costituito dal sistema immunitario, che reagisce con meccanismi molto complessi ma che, sostanzialmente, consistono nel riconoscimento del patogeno e nella produzione di strutture di difesa, del tipo cellule specifiche e anticorpi.
Se gli attacchi dei patogeni si attuano a livello intestinale, si altera la composizione di quella che una volta si chiamava impropriamente “microflora intestinale” e che oggi si indica con il termine più appropriato di “microbiota”, che comprende batteri, archea, funghi, virus e protozoi. Con il termine, invece, di “microbioma” si intende l’insieme del patrimonio genetico della micropopolazione, responsabile delle interazioni fra microrganismi e con l’intestino dell’animale ospite.
Secondo Mike Kogut, un ricercatore microbiologo del Ministero dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA), il sistema immunitario animale richiede energia per funzionare adeguatamente, spostando l’energia prodotta nel metabolismo dai fabbisogni di mantenimento e produzione verso le difese immunitarie. L’animale deve spesso difendersi non solo da infezioni microbiche di vario genere, ma anche da infiammazioni croniche intestinali causate da frequenti cambiamenti alimentari e altri stress ambientali. Ecco che il sistema immunitario diviene esigente in fatto di energia e ciò avviene a scapito dei processi naturali di accrescimento e riproduzione.
Non risulta che ci siano studi che valutino il costo economico delle infiammazioni cliniche e subcliniche. Sappiamo che l’infiammazione aumenta il fabbisogno energetico delle cellule immunitarie che, per disporre rapidamente dell’energia necessaria, passano alla glicolisi aerobica, meno efficiente, ma più veloce. Ne consegue una ridotta disponibilità dei nutrienti per il mantenimento e le produzioni ed il passaggio ai metabolismi lipidico e proteico per la produzione di ATP. Un vero sconvolgimento metabolico.
Il sistema immunitario e il microbiota intestinale sviluppano una sorta di mutua collaborazione sin dalla nascita dell’animale. Infatti, circa l’80% delle cellule immunitarie si trovano nell’intestino. In condizioni normali il sistema immunitario promuove la crescita dei microrganismi benefici a scapito degli altri e, dall’altra parte, il microbiota sano fornisce i metaboliti di supporto allo sviluppo delle cellule immunitarie e del loro corretto funzionamento.
Quando l’equilibrio fra microrganismi benefici e dannosi si altera a livello intestinale con una diminuzione della diversità, si parla di “disbiosi”. Il sistema immunitario attacca il microbiota con la produzione di citochine pro-infiammatorie, chemochine, con appiattimento dei villi e infiammazione diffusa. Diminuiscono le resistenze alla colonizzazione da parte di patogeni come la Salmonella typhimurium o il Clostridium perfringens.
Lo stato infiammatorio richiede energia da vie metaboliche aerobie, ovvero è associato con notevole stress ossidativo. In più, viene aumentato il catabolismo muscolare per fornire aminoacidi per la sintesi delle proteine immunitarie.
Per superare questa situazione invalidante nei riguardi del benessere animale, situazione che dipende in gran parte dalla qualità dell’alimentazione, i ricercatori devono orientarsi verso la comprensione dell’ecologia microbica, ovvero come le popolazioni microbiche interagiscono fra loro e con l’animale ospite. Oggi ci sono gli strumenti per farlo attraverso il sequenziamento e l’identificazione delle molecole che vengono usate per comunicare fra il sistema immunitario e il microbiota e le varie parti dell’intestino.
Oggi sappiamo che i legami fra microbioma e sistema immunitario dell’animale sono molto più stretti di quanto si pensasse qualche anno fa, quando si somministravano antibiotici per controllare i patogeni del microbiota, senza criterio, alterando così i rapporti fra microbioma e sistema immunitario e, ancor peggio, inducendo i patogeni ad acquisire l’antibiotico-resistenza, con tutte le conseguenze che conosciamo.
Si è finalmente capito che è meglio favorire la componente “buona” del microbiota a scapito dei “cattivi”, piuttosto che sparare delle cannonate di antibiotici che colpiscono sia i buoni che i cattivi, distruggendo tutto.
Dopo la messa al bando degli antibiotici come stimolatori di crescita in alimentazione animale, stanno prendendo sempre più piede i “probiotici” ed i “prebiotici”, in soccorso della componente utile della micropopolazione. I probiotici sono prodotti a base di microrganismi vivi come, ad esempio, i lieviti, intesi ad influenzare in senso positivo la composizione del microbiota. I prebiobici sono, invece, delle molecole che verrebbero naturalmente prodotte dal microbiota sano. Un esempio classico è l’acido butirrico, principale fonte energetica degli enterociti.
Numerose prove sperimentali condotte in tutto il mondo hanno dimostrato che il trattamento preventivo attraverso l’integrazione alimentare con probiotici e, soprattutto, con prebiotici, si è dimostrato efficace nel prevenire patologie enteriche conseguenti alle infezioni da Salmonelle, Clostridi, Escherichia, Campylobacter.